Che ci faccio qui? Ong e fotogiornalismo

  • didascalia: Ciad, confine con la regione sudanese del Darfur villaggio di Goz Beida.ospedale gestito dalla Ong Coopi, all'interno dell campo propfughi di Djabal
  • firma: © Marco Vacca 2009

L'articolo di Le Monde tradotto e ripubblicato su Internazionale apre un bel tema nel fotogiornalismo: il reporter che lavora per una Ong va considerato embedded e quindi, più che un reportage, sta realizzando un lavoro di corporate oppure è libero di guardare dappertutto?

Cercherò di fare una serie di considerazioni a partire dalle mie esperienze, tenendo conto anche delle specificità italiane e delle Ong che qui lavorano.

Sono stato molto spesso embedded sopratutto nei miei lavori “africani” e giova di certo spiegare come funzionano questi sodalizi tra reporter e Ong. Di solito si comincia con una proposta o da parte del fotografo o dalla Ong che ha bisogno di copertura mediatica sul tema. A me è successo in entrambi i casi: sul Darfur, freschissimo di conflitto, ho proposto io di unire le forze per un libro ed una mostra; un'altra volta mi è stato invece chiesto di coprire, per realizzare un multimedia, un tema specifico come la lotta all'Aids.

Va detto innanzitutto che molti luoghi di conflitto e/o instabili sono pressoché impossibili da raggiungere se non si confida sulla logistica delle organizzazioni che lì lavorano: in Darfur, ci si arrviva soltanto via voli Onu preventivamente autorizzati dal governo sudanese ed al seguito di organizzazioni umanitarie. Tertium non datur: o è cosi oppure non si racconta niente.

Arrivando al punto critico di dire se mi sia personalmente sentito in obbligo (o mi sia stato detto) di guardare solo da una parte o di dedicarmi solamente ai progetti che la Ong ospitante stava realizzando, devo dire che no, questo non è successo.

Ero libero di girare ovunque e frequentemente cacciavo il naso, spesso incoraggiato, anche in (altri) ambiti di pertinenza di altre Ong o in campi delle Nazioni Unite.

C'è spesso una problematica ben più complessa dell' “incarico aziendale”: quando Msf, o chi per loro, incarica un reporter di lavorare su una zona di crisi in cui l'organizzazione opera, non è tanto importante far vedere la loro bandiera che sventola garrula e gli espatriati al lavoro sprezzanti del pericolo quanto raccontare la presenza del “committente” in quella crisi. E questo racconto va fatto al meglio, spesso per un pubblico internazionale.

 

Quando andai in Sud Sudan con un'agenzia delle Nazioni Unite nel 1998, durante la guerra tra nord e sud, fui ospite anche in campi di altre organizzazioni ed ero libero di raccontare tutto quel che ero in grado di vedere; libero anche di capire i terribili meccanismi che gli aiuti umanitari spesso innescano  e contribuiscono alla cronicizzazione del conflitto.

Insomma, quelli che vorrebbero essere stigmatizzati come degli spot pubblicitari non hanno e non possono avere la linearità tipica del commercial, non c'è un copione, tantomeno una scenografia ad hoc. Certo, inutile negare che iniziative di questo genere sono legate alla promozione dell'organizzazione che ti permette di realizzare il lavoro ma non è come vendere mozzarelle.

 

Difficile equiparare un programma di alimentazione straordinaria in zone di carestia con un commercial della Barilla: ciononostante così come quest'ultima ingaggia Antonio Banderas per i suoi spot, la Ong tal dei tali propone al tal fotoreporter di cimentarsi sul tema. Quando devi raccontare la prevenzione e la sopravvivenza di malati di Hiv in una bidonville nel Kenya ti chiedi forse qual è il secondo fine o realizzi piuttosto che la verità ce l'hai lì davanti, nei volti delle persone e nei luoghi in cui abitano? E ancora, sarebbe diverso se lì ci arrivassi solo con le tue forze o con i soldi del giornale? In ogni caso chiunque sia il committente, dovrai comunque avvalerti di un mediatore. Il resto, la correttezza e l'obbiettività (sic) (di quel che stai facendo), è solo nella testa e nell'etica del fotoreporter.

Questo per quanto riguarda quel numero esiguo di organizzazioni che capiscono l'importanza del buon fotogiornalismo in questi ambiti.

Il resto, le frattaglie(e qui mi riferisco alle Ong italiane, che conosco meglio), le lasciano al primo operatore sul campo che ha una macchina al collo. Voglio dire con questo che i meccanismi sono più o meno gli stessi dell'editoria italiana: spendere il meno possibile o, meglio ancora, niente. Una fotografia è solo una fotografia e le competenze non fanno la differenza: l'importante è il labbro leporino ben in vista o la pancia stragonfia dei bambini denutriti. Il risultato è che se vi fate un giro sui siti della miriade di Ong che esistono vedrete solo miseria fotografica. Poco rispetto, nessuna competenza, assenza narrativa, soltanto pessima documentazione. E qui il tema ed i perché li abbiamo sviscerati innumerevoli volte per cui non mi dilungo.

Da ultimo, se tutto questo succede è in gran parte perché i giornali hanno smesso di raccontare cosa succede nel mondo (quelli italiani forse non lo hanno mai fatto veramente), perché produrre costa. Ed allora, invece di puntare l'indice su queste alleanze che invero hanno prodotto grandi lavori, forse sarebbe il caso di interrogarsi su coloro che hanno da lungo tempo disatteso il loro ruolo di informatori.

C'è poi da dire che i veicoli attraverso cui si producono inchieste fotogiornalistiche stanno cambiando: c'è il crowdfunding, c'è la rincorsa alle borse di studio, ai premi che ti permettono di continuare a produrre perché la tanto paventata rivoluzione informatica non ha ancora prodotto i risultati di disponibilità economica dell'età d'oro dell'informazione. L'alleanza del fotogiornalismo con i professionisti dell'emergenza è alla fine solo una di queste opzioni.