Ci risiamo. Di fotografia, nel nostro paese, come il solito chiunque può parlare e scrivere. Lo si fa perché si ritiene di saperne qualcosa, perché si è mediamente colti, mediamente curiosi, mediamente critici e consapevoli della società in cui vive. Lo si fa perché, a differenza di altri campi del sapere, non si ritiene debba esserci bisogno di solide radici culturali specifiche e di vaste ed approfondite letture sull'argomento alle spalle.
In questo caso è toccato all'ottimo Franco Carlini (che seguiamo da molti anni e senza riserve apprezziamo), divulgatore scientifico tra i più preparati, attento osservatore e commentatore corretto e acuto dei mutamenti in atto nella nostra società, ma che nell'ambito fotografico non risulta avere alcuna specifica preparazione, se non, appunto, la media cultura che, nel campo della fotografia in Italia, significa aver letto "La Camera Chiara" di Roland Barthes, "Sulla Fotografia" di Susan Sontag e "L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica" di Walter Benjamin.
Questi tre "testi sacri" che datano nelle loro edizioni originali, rispettivamente 1980, 1973-77 e 1931 pur restando delle pietre miliari nella storia della riflessione sul medium, appaiono, all'osservatore più attento, palesemente insufficienti per tentare un'analisi con strumenti un po' più raffinati, e soprattutto aggiornati, dei meccanismi che governano la produzione, la distribuzione e la fruizione dell'immagine fotografica contemporanee.
Ma veniamo al misfatto del giorno: la foto pubblicata in prima pagina il 10 ottobre 2000 dal Manifesto, manipolata elettronicamente, senza segnalare il fatto ai lettori. E naturalmente il commento apparso domenica 15 ottobre a firma Franco Carlini.
Per meglio introdurre e delimitare il contesto in cui ci stiamo muovendo, prendiamo a prestito un paio di pensieri da un volume di Fred Ritchin, ex Direttore della fotografia del New York Time Magazine e fondatore della sezione dedicata al fotogiornalismo all'International Center of Photography ("In our own image" di Fred Ritchin è stato pubblicato nel 1991 e aggiornato quest'anno ed è un buon punto di partenza per capire gli scenari futuri dell'immagine nei media).
"Fino ad oggi il fotogiornalista è stato per lo più considerato come uno che fornisce un certo quantitativo di immagini al personale che lavora nella testata giornalistica il quale poi opererà una scelta. Del resto anche la contestualizzazione dell'immagine attraverso la didascalia e l'impaginazione è compiuta da altri. (...) Con un simile tipo di rapporto tra fotografi e redattori (...) la fotografia è usata come neutro materiale grezzo che ad altri spetterà plasmare. E' come dare ai redattori delle liste di frasi e lasciare che essi le mettano nell'ordine che preferiscono". Fin qui Ritchin.
Aggiungiamo che il paragone con ciò che è avvenuto nel caso di cui ci stiamo occupando è ancor più impietoso e che la frase andrebbe riscritta così: "è come dare ai redattori delle frasi e lasciare che essi, dopo averle cambiate a piacimento, le mettano nell'ordine che preferiscono".
Siamo tutti (TUTTI?) consapevoli della non univocità della lettura di un'immagine fotografica, che per sua natura non è un linguaggio, non sottosta ad alcun codice ed è polisemica. Non ci culliamo quindi ingenuamente nell'idea che le immagini che i giornali pubblicano e che le televisioni trasmettono rappresentino "la realtà".
Ci sono tuttavia delle consuetudini, dei codici etici e delle assunzioni di responsabilità che vanno presi in esame qualora ci si inoltri nello specifico campo dell'informazione visiva in campo giornalistico, con particolare riferimento alla cronaca.
In tutti i paesi occidentali, la fotografia in ambito giornalistico gode di un indiscusso statuto di veridicità che viene difeso strenuamente, nonostante sia accettato e riconosciuto che in ambiti diversi (pubblicità, arte, ecc.) tale statuto è stato da molto tempo messo in discussione se non totalmente superato, anche dai non addetti ai lavori.
Le principali testate giornalistiche del mondo hanno in proposito un codice, scritto o talvolta soltanto perpetuato dalla tradizione orale e dalla consuetudine, che prevede l'INVIOLABILITA' dell'immagine.
L'agenzia Associated Press (che peraltro è proprio quella da cui è stata acquistata l'immagine pubblicata dal Manifesto) ha, per fare un esempio, un codice etico scritto che assicura i suoi clienti (oltre 1.500 giornali di tutto il mondo) che le immagini fornite non sono state alterate in alcun modo, se non per migliorarne unicamente alcuni aspetti tecnici: contrasto, luminosità, incisione. Il codice dell'AP, che riportiamo testualmente, dice: "The content of a photograph will NEVER be changed or manipulated in any way" ("Il contenuto di una fotografia non sarà MAI cambiato o manipolato in alcun modo"). AP estende anche ai propri clienti la condizione di non manipolare le immagini e si riserva il diritto di interrompere la fornitura di immagini alle testate che violino questa clausola contrattuale. ( A proposito, il manifesto è stato diffidato da AP in occasione di questo penoso incidente di percorso? Sinceramente ne dubitiamo: Business is business).
Fuori dal nostro paese, l'attenzione dei media nei confronti di questo delicato aspetto dell'informazione è sempre stata elevata. Negli USA, per citare un fatto molto noto, ha fatto storia il caso delle Piramidi di Giza avvicinate con il computer per permettere l'impaginazione di una copertina del National Geographic nel lontano 1982. Bill Allen, vicedirettore del Geographic, ricorda che per molti anni dopo l'incidente è stato costretto a rispondere in pubblico alla impertinente e provocatoria domanda: "Avete smesso di spostare piramidi?".
E in anni più recenti possiamo ricordare la carnagione di O.J. Simpson scurita artatamente sulla copertina di uno dei più letti newsmagazine americani, le foto della famiglia reale inglese con il volto del principe William ritoccato per correggere uno sguardo triste e "poco regale" e via dicendo. In occasione di ognuno di questi "casi giornalistici" sono seguiti dibattiti accesi e pubbliche prese di posizione, normalmente anche delle scuse ai lettori da parte dei monelli colti in flagranza di reato. Per citarne una, di Alan Sparrow, photo editor del britannico The Guardian: "Non ci sarà mai un buon motivo per ritoccare un'immagine di cronaca. Se si dovesse arrivare a farlo, nessuno crederà mai più ad un'immagine".
E qui torniamo alle osservazioni di Carlini, che parte da motivazioni tuttaltro che arbitrarie, anzi decisamente profonde ("l'epoca digitale (...) dovrebbe spingere chi legge le immagini ad assumere verso di esse un diverso atteggiamento mentale") cioè auspica che si possa arrivare a "mettere in dubbio la presunzione di verità" di ogni immagine e ad imparare "a leggerla e a diffidarne".
Questo è un nobile intento, e un approccio certamente maturo all'immagine, che dovrebbe e potrebbe essere messo in atto già con le immagini non manipolate, dato che non v'è niente di più discutibile, opinabile e soggettivo della trascrizione bidimensionale di un frammento spaziale e temporale di realtà che una persona a noi sconosciuta ci fa pervenire tramite un giornale. Ma è proprio per questo motivo, per avere la possibilità di vagliarla criticamente, che si vuole poter giudicare la trascrizione della realtà operata dal fotogiornalista che sul posto si trovava in quel momento. Si vuole poter esercitare la lettura e il giudizio critico su ciò che un testimone diretto ha da raccontarci, non sulle variazioni, più o meno lecite, più o meno estetizzanti, più o meno colte, più o meno gratuite, sicuramente meno ricche di informazione, che un giornalista o (perché no?) un grafico di passaggio, ha pensato di apportare stando seduto davanti al proprio computer in via Tomacelli a Roma o in via Solferino a Milano.
Ecco perché, dall'enunciazione di nobili intenzioni Carlini finisce (siamo certi contro la sua stessa volontà) per giustificare pessime e pericolose pratiche, sostenendo che: "(...) la nuova versione della prima immagine può risultare migliore delle precedenti, magari perché è stata migliorata dall'intervento creativo di un videografico". Questa frase agghiacciante (ricordiamoci che stiamo parlando di foto di cronaca), che se pronunciata in qualsiasi altro momento sarebbe stata inaccettabile, suona particolarmente grave ora. Infatti è stata scritta a qualche giorno di distanza sul Manifesto, lo stesso giornale che ha commesso una grave mancanza giornalistica, non una veniale leggerezza, nei confronti dei lettori (e ovviamente dell'anonimo fotografo dell'Associated Press.). Errore che la redazione ha ammesso, anche se dopo alcuni tentennamenti e balbettii iniziali, a testa bassa e senza riserve di fronte alla marea montante delle lettere indignate di lettori certo non sprovveduti ("Abbiamo sbagliato e basta", Il Manifesto del 12/10/2000). Questa di Carlini potrebbe suonare invece come la riabilitazione a posteriori, in nome dei "nuovi codici" cui ci obbliga secondo Carlini "l'epoca digitale", di un atto indifendibile.
In ogni caso, stupisce e sembra antistorica la pretesa, anche se soltanto a livello di "aspirazione di principio" di un atteggiamento di scetticismo nei confronti dell'immagine fotografica in un paese, l'Italia, dove la cultura fotografica non è mai uscita da ambiti ristrettissimi (tanto per citare un fatto clamoroso: è istituita una sola cattedra universitaria in tutta Italia, di "Storia e tecnica della fotografia") e certamente non è mai stata considerata dall'opinione pubblica, anche quella più sensibile ed informata, un ambito meritevole di riflessione.
Carlini non si è però chiesto come mai una così avanzata ipotesi di risveglio collettivo da atteggiamenti acritici nei confronti delle immagini giornalistiche, come quella che sembra suggerire, non sia stata proposta e sperimentata in paesi di più antiche e consolidate tradizioni culturali in campo fotografico (come al solito: Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania). Il motivo è che la manomissione dell'immagine fotogiornalistica è, nei paesi citati e in altri, un tabù. E proprio questo suo status di inviolabilità intrinseca e non discutibile ha preservato intatta, nel corso degli anni, la credibilità dell'informazione visiva ad esempio nei paesi anglosassoni.
Su una cosa non possiamo che dargli ragione e la nostra incondizionata adesione: sulla necessità di aggiungere un tassello dedicato alla fotografia al "provvisorio elenco di temi culturali da approfondire e studiare in un ipotetico programma di alfabetizzazione alle nuove culture digitali e multimediali". Aggiungendo che tale programma sarebbe stato necessario anche molto prima dell'avvento dei pixel e del web.
A tale proposito, tanto per avere un assaggio delle riflessioni che, dopo Barthes e Sontag, possono aiutare il lettore a formarsi un sapere critico nei confronti dell'immagine fotografica nell'epoca digitale, citiamo qualche volume, in ordine sparso:
William John Mitchell - The reconfigured eye. Visual truth in the post-photographic era. 1992
Manovich Lev - The paradoxes of digital photography. 1996
Roetzer Florian - Re:photography. 1996
Oltre naturalmente al già citato Ritchin, di cui può valere la pena leggere anche una lucida analisi sul fotogiornalismo in un documento disponibile o n-line all'indirizzo:
http://www.pixelpress.org/Witnessing/index.html
Ai lettori curiosi riveliamo che l'autore della foto manipolata è una persona in carne ed ossa, che risponde al nome di Jerome Delay. Egli è per ora all'oscuro dei fatti qui commentati, trovandosi in Palestina per testimoniare cosa avviene in questi giorni.Marco Capovilla