Intervista a Giovanna Calvenzi

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Intervista rilasciata a Milano, nel maggio 2007

Giovanna Calvenzi è studiosa e insegnante di fotografia prima che giornalista e photoeditor e ha conosciuto la fotografia in un’ottica culturale, artistica, di studio. In seguito ha utilizzato la sua competenza nell’informazione, nel mondo dei periodici e può valutare la differenza dell’uso e del significato nei diversi contesti. In particolare il mutamento di significato di una foto che, prodotta per un certo canale, si trova riproposta in un altro, passando ad esempio dalle pagine di un giornale alle pareti di un museo o alle pagine di un libro. Vorrei capire come e quanto questi significati che si sovrappongono al valore d’uso iniziale fanno mutare anche la percezione e la fruizione finale.

Una regola generale non c’è, tuttavia mi è capitato nel corso della mia attività che una cosa così come la prevedi tu sia avvenuta. E’ avvenuta in due casi specifici. Io ho iniziato a lavorare come photoeditor ad Amica nell’85 e quell’anno ho commissionato ad Helmuth Newton dei servizi di servizi di moda e di presentazione del giornale: dopo la pubblicazione le sue fotografie sono state esposte in mostre e sono entrate a far parte dei suoi libri. In tempi recenti molti ritratti fatti da Toni Thorimbert per Amica o per Max sono entrati in un suo libro del 2006 ed esposti in mostra alla galleria Nepente. Questa cosa può avvenire, non è detto che sia esclusa a priori, mi vengono ovviamente in mente anche molti esempi legati al fotogiornalismo. Considera però un fatto: quando si fanno scattare delle fotografie per un giornale la priorità assoluta ce l’ha la filosofia editoriale: la fotografia deve adattarsi a questa. Quindi non necessariamente il photoeditor lavora con i fotografi con cui vorrebbe lavorare, ma con i fotografi giusti per il giornale.

Io sono stata decisamente fortunata perché ho sempre lavorato in giornali nei quali la fotografia aveva molto rilievo, quindi mi è capitato spesso che lavori prodotti per il giornale venissero poi utilizzati per libri e mostre, oppure che libri fotografici importanti venissero presentati sul giornale tramite le fotografie di cui avevamo acquisito i diritti; ad esempio alla fine degli anni 80 mi è capitato spesso con libri della Leibovitz, o di Natchwey o altri autori. Non sempre capita, è necessario che il giornale abbia una filosofia editoriale in cui la fotografia ha una funzione e un ruolo rilevanti.

A proposito della filosofia editoriale, vorrei chiederti dell’utilizzo della fotografia che si fa sui giornali. In una conferenza di alcuni mesi fa Pietroni ha definito i suoi giornali maschere, personaggi dotati di una personalità riconoscibile, ai quali il lettore si affeziona inducendolo a tornare in edicola a comprare proprio quel particolare giornale. In questo quadro il giornale deve rispettare il proprio personaggio e proprio la fotografia diventa uno dei mezzi fondamentali a caratterizzarlo. Il ruolo del photoeditor diventa conseguentemente fondamentale nella redazione del giornale, perché l’aspetto fotografico, e più in generale l’aspetto visivo, costituisce la presentazione del personaggio, la forma con cui viene riconosciuto, scelto e possibilmente amato dal lettore. Un photoeditor seguendo questa filosofia editoriale è limitato nelle scelte, per temi e varietà: non rischia così di offrire una visione parziale della fotografia? Soprattutto considerando che molte testate sono sostanzialmente omogenee nella filosofia editoriale e che le fotografie devono uniformarsi a un codice che prevede ovviamente bellezza e spettacolarità. Non si rischia un utilizzo monco del linguaggio fotografico, potenzialmente dotato di notevole varietà?

Tu hai messo insieme una serie di cose molto diverse. Anzitutto i giornali di Pietroni sono i giornali di Pietroni, valgono per lui e per gli accordi che lui ha preso con i vari editori per i quali ha lavorato. L’idea di un giornale inteso come maschera, ossia come un personaggio al quale fare riferimento, è un’idea prevalentemente sua, che io ho imparato da lui e che mi ha facilitato sempre enormemente il lavoro.

E’ evidente che tu in questo modo lasci fuori tutta una serie di altre fotografie, ma è evidente anche che i giornali non sono dei contenitori omnicomprensivi: ogni giornale ha una propria logica. Voglio dire i giornali di Pietroni per i quali ho lavorato sono stati Amica, Max, Sette, Vanity Fair e lo Specchio. Ognuno di questi giornali aveva una propria filosofia. Amica era un femminile settimanale di lusso, il cui riferimento, la donna tipo, la maschera, era un personaggio che escludeva tutti i servizi o le storie che non avevano a che fare con la bellezza, con il potere d’acquisto con il glamour o con gli interessi culturali. Comunque anche lì alcuni servizi straordinariamente forti, anche se andavano in direzione diversa, sono stati pubblicati. Lo stesso vale per Max. Quello che interessava era il target, “target di lusso” in quel caso, perché il giornale si rivolgeva a donne intelligenti, colte con forte potere d’acquisto. In queste condizioni capisci che la varietà possibile di temi e di linguaggi è notevole. Il discorso che facevamo quella sera con Pietroni, che a lui dà un po’ fastidio ma che è molto vero, è che per tutti noi che lavoravamo in redazione questa donna di Amica non era particolarmente simpatica, perché era una donna che non concepiva la vecchiaia, per cui tu potevi mettere ritratti di persone anziane solo se erano che so Musatti o Horowitz, ma non si poteva mettere una generica signora anziana. Allo stesso modo doveva essere sempre bella, curata, direi inappuntabile, in un contesto in cui i bambini non erano previsti. Ecco ti posso dire che non abbiamo mai fatto servizi sui bambini o sugli animali, questi erano due temi di scarsissimo interesse per il giornale. Tutti gli argomenti che non collimavano con l’immagine di donna che ha aveva creato il direttore non sono mai entrati nel giornale, tuttavia Amica è stato un settimanale che è andato molto bene. Ma, insisto, Amica non è un giornale di informazione, omnicomprensivo, ammesso che questi lo siano: era un giornale femminile di moda che si rivolgeva a un target medio alto. Questo criterio c’è più o meno in tutti i giornali, è una decisione che viene presa a monte, prima che esca il primo numero. Comunque il tipo di fotografia che serve ai giornali, perlomeno quelli per i quali ho lavorato io, lascia poco spazio alla sperimentazione e viceversa c’è stata e c’è la ricerca di un’immagine solida, semplice e di qualità ma di immediata comprensione da parte del lettore.

In una tua intervista di alcuni fa concessa a Isabella Balena e ancora disponibile sul sito di Fotografia e Informazione sottolineavi l’importanza per il lavoro di un photoeditor di occupare un ruolo assimilabile a quello di caporedattore all’interno della redazione, per poter incidere realmente sulla linea fotografica del giornale. La situazione all’epoca, a parte poche eccezioni, vedeva il photoeditor relegato in un ruolo minore, poco considerato dai giornalisti scriventi e a dai direttori. Mancava poi un riconoscimento professionale e giuridico chiaro e una formazione adeguata. Vorrei sapere se in questi anni qualcosa è cambiato. Per esempio il Grin, associazione che riunisce i redattori iconografici italiani, ha acquisito negli anni una centralità sempre maggiore nel dibattito fotografico e conduce alcune battaglie anche dal punto di vista del riconoscimento professionale. Nel tempo sono nati diversi corsi di formazione alla professione.

C’è una situazione in questo momento abbastanza confusa, che parte addirittura dalla condizione di giornalista; il fatto che la Fieg non si sieda a un tavolo con i giornalisti per discutere il rinnovo del contratto è estremamente significativo e investe tutte le professionalità che lavorano all’interno di un giornale.

I photoeditor giornalisti professionisti sono aumentati rispetto a quando io ho fatto quell’intervista, però contemporaneamente le case editrici ricorrono alla figura giornalistica solo in casi estremi. La tendenza è, pur essendoci moltissime persone che lavorano al momento nei giornali occupandosi solo di fotografia, di assumerli con contratti variegati dalla collaborazione a progetto alla partita iva, o in ruoli non giornalistici come segretari o impiegati: mille formule e mille modi. Questo è un problema che investe tutta la categoria dei giornalisti e i photoeditor fanno parte di questa categoria. Il problema ulteriore per questi ultimi è che, dato che il contratto non prevede questa figura, è facile per gli editori disattendere la necessità di formare delle serie ed efficienti redazione fotografiche. Anche perché continuo a credere che solo dall’interno della redazione in una posizione paritetica con gli altri giornalisti, o superiore a seconda dei casi, ma comunque in modo organico e stabile, si possa svolgere una reale influenza sul visivo del giornale.

Questo cambia anche il risultato finale, intendo come consapevolezza nell’uso della fotografia?

Certo se il photoeditor è competente e rispettato informa tutto il giornale di questa scelta qualitativa. Questo dipende dall’editore, dal direttore, dall’art director, dipende da molte cose. Insisto è un lavoro collettivo, mai un lavoro individuale. Certo per fare delle proposte e vederle rispettate bisogna avere credito. E il credito te lo guadagni, in parte sul campo come sempre, però se entri in modo paritetico è più facile.

In quella intervista parlavi della differenza tra i quotidiani e i periodici. Nei quotidiani la fotografia dovrebbe essere una notizia, dovrebbe pertanto avere una didascalia, la firma del fotografo, la data il luogo e una descrizione dell’avvenimento, altrimenti si rischia di farne un utilizzo illustrativo. Scontentando i fotografi e gli studiosi di fotografia, ma a mio avviso anche tradendo il senso che una fotografia-notizia deve avere e offrendo una cattiva informazione.

Non ho mai lavorato in un quotidiano. Credo che allo stato attuale delle cose non esista un photoeditor in nessun quotidiano italiano. La scelta delle immagini è affidata unicamente ai vari giornalisti, ai direttori, ai grafici e a chiunque se ne voglia o possa occupare all’interno della redazione. È evidente che la fotografia nei giornali viene utilizzata o come informazione o come illustrazione. La mia sensazione da lettore è che venga prevalentemente utilizzata come illustrazione. Sono pochissimi i casi in cui la fotografia è informazione e comunque sono poche le foto che da sole riassumono completamente una situazione, pertanto è evidente che dovrebbero avere una didascalia con data luogo nome autore e descrizione dell’evento, ma constato, sempre da lettore, che questo non avviene quasi mai.

Non avviene per mancanza di tempo o per scelta?

Non credo ci sia una scelta , credo che ci sia un’insipienza dovuta all’impreparazione di chi si occupa di fotografia all’interno dei quotidiani, dove la foto viene vissuta come illustrazione, come cosa da tagliare se il testo è troppo lungo, come un mezzo per alleggerire la massa delle parole, e difficilmente diventa informazione. In parecchi giornali, da quando c’è il full-color sui quotidiani, mettono la foto grande che fa notizia in prima pagina, ma tutto si ferma lì. A mio avviso in Italia non c’è una politica dell’immagine.

Non andrei avanti a parlare dei quotidiani, soprattutto perché tra di noi come photoeditor nei convegni discutiamo del cattivo utilizzo che i quotidiani italiani fanno della fotografia e non c’è mai la presenza né di un direttore né di un giornalista di un quotidiano. Sono come mondi staccati in cui ciascuno fa la propria storia. I periodici hanno una consuetudine diversa, ma i quotidiani hanno sempre vissuto la fotografia come decoro e non come informazione salvo qualche raro episodio. Non abbiamo mai avuto dialogo con i quotidianisti. Non hanno tempo.

Vorrei poi chiederti del rapporto della fotografia con la grafica, i testi, con l’impaginato. E, tornando alle didascalie sui giornali, quali informazioni deve contenere?

I fotografi dovrebbero obbligatoriamente scrivere la didascalia. Con il digitale è diventata una cosa facilissima, già il jpeg prevede in photoshop una funzione che ti permette di scriverla. C’è chi lo fa e chi non lo fa. La didascalia deve consentirti oggi e tra dieci anni di sapere in che anno è stata fatta la foto, dove è stata fatta e, volendo, anche perché e in quale situazione. Tutta quell’informativa che vale per il momento presente, ma a maggior ragione per il futuro. Ti faccio un esempio di questa mattina. Alcune foto degli anni 60 di Mohammed Alì di Corbis hanno persino il nome dell’arbitro. C’è scritto tutto, perché in quegli anni scrivevano tutto. Oggi la scrittura dell’info-file, salvo agenzie americane molto strutturate, è veramente elementare. Se tu comperi da alcune agenzie trovi pochissime informazioni e, a volte, neppure l’anno di scatto. Questo non dipende da noi giornalisti delle redazioni, dipende dai produttori e dai distributori. Noi firmiamo sempre le fotografie e quasi tutte le agenzie mettono soltanto il cognome del fotografo, ma io mi rifiuto di mettere solo il cognome e così perdiamo un sacco di tempo a reperire le informazioni complete. Una volta ero esasperata e ho minacciato: o mettete anche il nome o noi non firmiamo più le foto. Puntualmente non è cambiato nulla. Quindi questa è ancora una battaglia da combattere, ma da entrambe le parti, perché se è vero che veniamo accusati noi di non mettere i nomi, è anche vero che in molte agenzie non c’è nessuno che si preoccupa di riportare i nomi dei propri autori.

Hai introdotto l’aspetto delle agenzie e dei fotografi. Mi pare che la tendenza sia non avere più fotografi di staff, ma vedo che Sportweek per esempio commissiona ad alcuni fotografi settimanalmente uno o più servizi, il che per certi versi li rende assimilabili a fotografi di staff, con i quali si è probabilmente creato un rapporto continuativo basato sulla fiducia e probabilmente sulla condivisione del progetto editoriale.

Le ragioni di collaborazione tra un giornale e un fotografo o un’agenzia, quando si parla di produzione, sono legati certamente alla qualità del lavoro del fotografo, al tipo di aderenza che la sua fotografia ha con il progetto editoriale del giornale. Questo è il dato numero uno. Però poi intervengono anche altri fattori. Ci sono fotografi con i quali mi piacerebbe lavorare ma che sono problematici, ai quali bisogna organizzare le cose, e quindi non ce la si fa. Ad altri basta dire dove andare, cosa fare e cosa ci si aspetta da loro. Poi si arrangiano da soli. Questi vengono privilegiati nel momento della scelta, perché semplificano il lavoro. Il ritmo di un settimanale è veloce. Se per far fare un servizio fotografico devo impiegare un’ora con un fotografo per spiegargli tutto dettagliatamente e contemporaneamente stare dietro a tutta la parte organizzativa, la seconda volta ci ripenso bene a lavorare con questa agenzia o con questo fotografo. Abbiamo bisogno anche noi di collaborazione. In questo caso specifico non abbiamo neanche una segretaria, quindi la situazione diventa per noi ancora più complicata. Come prima non si può mai generalizzare. In passato, in presenza di strutture professionali più ricche, c’era un ufficio fotografico con 3 persone, c’erano 2 segretarie: allora si poteva davvero seguire un fotografo, magari andando con lui al momento dello scatto. È implicita un sorta di comodità per il giornale che porta a chiamare fotografi che conoscono il giornale, che sanno come muoversi e quale immagine è loro richiesta.

La scomparsa del fotografo di staff costringe i fotografi a cercarsi, spesso a posteriori, un acquirente. Assumendosi l’onere economico e progettuale dell’evento da fotografare, dovrà cercare soggetti temi e modalità che possano essere più facilmente vendibili, a scapito dell’approfondimento.

Personalmente, faccio un discorso aziendalista se vuoi, trovo un fotografo di staff scomodo e troppo costoso per le esigenze del giornale. Se per fotografo di staff invece si intende qualcuno a cui si garantisce una continuità di lavoro, ma non organico alla redazione, allora penso abbia un senso e un’utilità. Io ho sempre avuto fotografi di staff, intesi in questo senso, ho avuto sempre una decina di fotografi ai quali ho garantito nel tempo continuità di lavoro. Tieni presente però che io lavoro da sette anni in un giornale sportivo, molto diverso dai settimanali che ci sono in giro. In ogni caso lo spazio che i settimanali generalisti o i news magazine, o anche i femminili e i supplementi dei quotidiani, danno alla fotografia non consentono una produzione continua di servizi in giro per il mondo. Contemporaneamente c’è un altro discorso che tu non fai. Che è un discorso più generale su un abbassamento complessivo dell’informazione visiva nei giornali. Non che sia diminuita la qualità dell’informazione visiva nei giornali, anzi credo sia aumentata, ma è diminuita la necessità nei giornali di avere un’informazione visiva specifica; voglio dire nel momento in cui si pensa ai due news magazine italiani, L’Espresso e Panorama, ci si accorge che non hanno un’idea globale dell’immagine, per cui si possa dire questa è un’immagine che va bene per uno o per l’altro. Sono assolutamente intercambiabili, pur essendo due giornali molto diversi. Pensando al passato, per esempio all’immagine dell’Europeo, ci si rende conto che la fotografia fatta utilizzata e promossa da quel giornale, ma si potrebbe dire lo stesso dell’Espresso di una volta, era una fotografia fortemente caratterizzata. Adesso è passata una sorta di omologazione, per cui va bene un po’ tutto. Non solo, tu sai benissimo che il materiale che viene prodotto dalle grandi agenzie internazionali è di una qualità medio alta, di conseguenza se io dovessi fare oggi un servizio sull’Iran, per fare un esempio, collegandomi a Reuters o ad Ap troverei in tempo reale delle immagini di ottima qualità, certamente in grado di reggere un servizio su un news magazine italiano. Voglio dire che è passato il tempo delle telefoto. Questi grandi network non erano competitivi negli anni delle telefoto. Oggi con Internet il discorso è molto cambiato a loro favore. I fotografi dovrebbero fare una disamina seria di quello che è lo stato delle cose, di quello che è il mercato e ritagliarsi degli spazi, laddove queste grandi agenzie non arrivano. La realtà milanese non interessa affatto alla Reuters né ad Afp, ma interessa i giornali italiani. Oppure fare come fanno anche molti fotografi di Contrasto, che partono con dei progetti apparentemente piccoli, magari locali, pensando poi di ampliarli e portarli a mostre o progettando dei libri. È un mercato diverso da quello di qualche anno fa e ho la sensazione che ci si sia fermati troppo poco a pensare cosa significa fare il fotografo oggi nell’era digitale, cioè in anni in cui se la qualità conta più che mai, si hanno anche i famosi citizens photographers armati magari solo di foto-telefonino. Quelle che scattano, che io continuo a pensare non siano fotografie, trovano ugualmente spazio nei giornali, fanno notizia e in qualche modo danno informazione. Se facessi il fotografo prenderei atto di questo stato di cose e cercherei un settore che non sia coperto.

Questa diffusione degli strumenti di registrazione, Youtube o le photo - community ha fatto fiorire un giornalismo dal basso, diffuso. Visto che sui giornali non necessariamente viene utilizzata la fotografia di qualità e che spesso sono altre le ragioni della scelta, vorrei chiederti come va rivisto il concetto del reportage, se questo va ripensato, sia per quanto riguarda la fotografia che il giornalismo scritto. Alcuni degli eventi più significativi degli ultimi anni, dall’uccisione di Saddam Hussein, allo Tsunami, alle torture in Irak, o anche l’attentato alle Torri Gemelle, sono stati all’inizio portati alla ribalta da non professionisti.

Sai, io ho letto un libro di Vittorio Sabadin che si chiama “L’ultima copia del New York Times”, dove viene analizzato quello che si è fatto nel mondo negli ultimi 5-6 anni a partire da una grave crisi che ha coinvolto tutta la stampa dei quotidiani, che ha visto tutti i quotidiani del mondo perdere copie. Gli editori si sono trovati di fronte a una dimensione che prevede che prima o poi i giornali di carta siano destinati a scomparire. È una cosa che viene ritenuta inevitabile e di conseguenza venendo meno la carta stampata viene meno un certo genere di fotografia e tutta una serie di altre cose. Ma contemporaneamente ne nascono altre, bisogna quindi cercare di capire cosa sta succedendo e in che direzione andare. Sabadin non analizza i periodici, analizza solo i quotidiani, ma è comunque evidente che le generazioni più giovani sono molto meno attratte dalla carta, in qualunque formato si presenti, che non dal computer. Personalmente non ho risposte, continuo a pensare che ci siano mille modi diversi di utilizzare la fotografia. Fai conto che sul sito del New York Times ho visto un servizio fotografico fatto di immagini multiple che dava sensazione di movimento fatto in Irak da Ed Kashi. Voglio dire ci sono mille forme per cui anche su internet la fotografia continuerà ad avere un suo spazio. Ma deve cambiare. Deve cambiare nella testa dei fotografi e nella testa di chi fa i giornali. I giornalisti sono una categoria molto sclerotizzata, molto stanziale e paradossalmente poco sensibile ai cambiamenti. Considera che questo libro ci è stato regalato d’ufficio dal direttore di Gazzetta, che ha chiesto a tutti i giornalisti di leggerlo e di rifletterci su. Mi sembra un direttore decisamente illuminato da questo punto di vista. È certo che nel quotidiano Gazzetta questi sintomi di cambiamento sono ancora pochi, ma se li cerchi li trovi. Certo hai sempre lo zoccolo duro dei lettori che vuole la continuità, il mantenimento delle abitudini, però questi lettori invecchiano e hanno bisogno di un ricambio che al momento non c’è. Uno di 20 anni magari apre la pagina web di Repubblica al mattino appena sveglio ma non gli viene in mente di comprare il giornale in edicola.

Il discorso è come dicevi più generale e riguarda la perdita di centralità di tutta la stampa, compresa quella periodica dei giornali illustrati, e di conseguenza della fotografia, dell’immagine statica nella comunicazione. Mi chiedo però se è possibile che la comunicazione cartacea venga completamente soppiantata da quella immateriale elettronica.

Con il cellulare-palmare posso vedere tutte le notizie, senza bisogno di comprare il giornale. Questi fenomeni hanno ragioni economiche, io non sto sperando nella fine della carta stampata, perché mi piace, come mi piace scrivere a mano senza usare il computer. Ma il ragionamento è che nessuno nella carta stampata ha fatto seriamente i conti con quello che significa l’avvento di internet. I tempi sono molto più veloci, sono stati molto più veloci di quanto ci aspettassimo. Le uniche lentezze vengono dal denaro e dalla pubblicità. Tutti i giornali che sono nati online 5 anni fa sono scomparsi. L’esperienza de Il Nuovo di Fastweb è finita in niente. Era troppo presto, era un giornale eccellente ma era troppo presto: non c’era ancora la pubblicità. Allora tu assisti nella stampa cartacea a dei fenomeni come Velvet che è un contenitore di pubblicità, è un ricco contenitore di pubblicità. Io non so dire se siano gli ultimi colpi di coda di una storia o se sia una possibile nuova strategia che consenta di fare giornali non facendo più informazione ma facendo informazione di prodotto. Per il momento in Italia la pubblicità crede solo parzialmente a internet. Non ci sono stati ancora in Italia quegli spostamenti in grado di dare serenità a chi lavora solo online. La pubblicità continua a mantenere in vita tutti i giornali di carta. Quando avverrà lo spostamento verso il web i giornali di carta saranno finiti. È la pubblicità che ci tiene vivi. È da loro che aspettiamo i tempi e le risposte. Velvet è un giornale interessante da questo punto di vista perché non si nasconde. È un giornale che fa informazione di prodotto. Non so se poi vada bene o vada male. Il numero di pagine pubblicitarie che quel giornale ha è di grande interesse per tutti. Se resiste nel tempo quella è una strada aperta.

Il New York Times ha di recente previsto la definitiva scomparsa dei giornali di carta per il 2020, pensi che sia una previsione realistica?

Guarda io non ti so dire. Sono una lettrice di Nathan Never, che si svolge nel 3000 d.C., e dove il protagonista colleziona libri di carta. Posso prendere in considerazione che la carta non ci sia più, però a casa libri da leggere ne ho ancora.

Roberta Valtorta, nella mia precedente intervista, sottolineava la perdita di centralità dell’immagine fotografica nei giornali e nelle riviste illustrate, nella comunicazione, nella formazione dell’opinione pubblica e nella cultura. Contemporaneamente metteva in guardia da tutti quegli utilizzi che tendono ad accelerare il processo di spettacolarizzazione, in una sostanziale uniformazione al linguaggio della moda e della pubblicità. Sia nell’uso giornalistico sia in una parte della produzione artistica che tende a utilizzare linguaggi più immediati e veloci, conquistando fette sempre più consistenti di mercato.

L’immagine della moda e della pubblicità per molto tempo ha fatto cose egregie, molto meglio di quanto facciano molti altri fotografi. Poi, certo, c’è una deriva grezza e imitativa, ma ci sono anche cose molto buone. Non si possono fare discorsi generali. Non riesco a pensare che si vada uniformemente in quella direzione. Rispetto al mercato è evidente che ci sono delle cose non di qualità ma spettacolari e facili. Però recentemente sono stata al Festival di Reggio Emilia. C’era una mostra di un fotografo finlandese di nome Pennti Sammallathi. Presentava delle foto di Helsinki nel corso del tempo. Erano delle foto formato 15x15, 18X18 di grande bellezza e di grande raffinatezza. Ero con Martino Marangoni, che ha un’importante fondazione di fotografia a Torino, e che quando abbiamo finito di fare il giro mi ha detto: ‘dobbiamo ringraziare la scuola dei Becher per l’impoverimento generale della fotografia europea’. È molto significativo, perchè la scuola tedesca dei Becher, non tanto loro, che sono eccellenti, quanto piuttosto i loro allievi, ha creato una stile facile che va da Gurski a Ruff a Struth, i quali sono entrati nel mercato con una qualità e un livello medio eccellenti, però con una fruizione molto immediata dei loro lavori. Lascio fuori i Becher perché sono una razza a parte rispetto agli allievi, che hanno annullato e reso meno interessante una fotografia altrettanto colta, altrettanto raffinata ma non altrettanto spettacolare. Quindi il discorso della spettacolarizzazione, sia che passi attraverso l’arte, i giornali o la televisione, è evidente, fa parte di questi anni. Non so da dove venga. Se penso alla moda penso a gente come Bruce Weber e trovo abbia fatto fotografia vera. Che poi fosse di moda o di pubblicità o altro non importa: era ed è un vero fotografo. Sono anni di spettacolarizzazione, tutto è spettacolo, viviamo nella società dello spettacolo, però ci sono nelle pieghe di questo panorama generale ancora persone che vanno avanti a fare il loro lavoro con grande dignità. Ti cito due mostre recenti: Pennti Samallathi e Bernard Plossu, i quali, a dispetto delle mode e dei tempi, vanno avanti per la loro strada. Certo una foto di Pennti Sammallathi la compri a 2000 euro una di Gurski a 400 mila. Ma non so a chi dare la colpa.

Tornando alle agenzie è sempre più evidente la potenza di grandi banche immagini in cui si può trovare di tutto, che sono molto facili, comode e di grande potenza commerciale. Il rischio non è la perdita di qualità della fotografia, nonché come un abbassamento dei prezzi? Un rischio per l’indipendenza dei fotografi e un appiattimento su standard uguali per tutti.

Io in questo tipo di cose vedo sempre e solo un problema, un problema di cultura di chi opera in questo settore. Ci sono delle cose contro le quali ci si può battere e delle cose contro le quali è inutile: una di queste ultime è la concentrazione delle agenzie. Però ci si può battere per conoscere anche gli studenti della Bauer per vedere se tra di loro c’è un fotografo che valga le foto di Getty. È un problema di preparazione. Il photoeditor deve poter usare entrambi gli strumenti. Poi riconosco anche io che è molto più facile collegarsi a Getty a Corbis a Reuters e trovare tutto quello di cui si ha bisogno, piuttosto che non conoscere i giovani autori da guidare e fare crescere. Dipende dalle persone. A me questo piace molto, mi piace giocare sui due tavoli. Mi piace lavorare con gente nuova, dare una mano ad autori nuovi. Se tu vedi nella mia carriera l’ho sempre fatto. Ma per frequentazioni personali o amicali, per mio interesse. Io vorrei che tutti facessero così, vorrei che tutti i photoeditor andassero ai festival alle mostre leggessero i libri, tirassero via la testa dal monitor del computer almeno ogni tanto. È quello per cui ci battiamo al Grin. L’unica soluzione vincente è questa. Si possono combattere questi giganti comportandosi come i pigmei che difendono il loro spazio culturale.

Oltre a essere stata insegnate e studiosa di fotografia hai un ruolo come curatrice di mostre e rassegne e i tuoi interessi riguardano ambiti e periodi molto diversi della fotografia, permettendoti di maneggiare e conoscere il linguaggio fotografico nella sua varietà e complessità. Trovi che questo sia un requisito necessario per un photoeditor?

Io ritengo che sia così, ma ancora una volta non è una legge. Io sono stata assunta da Pietroni nell’85 senza avere mai lavorato un minuto in un giornale solo perché avevo insegnato fotografia per 11 anni. Io sono cresciuta abituata alla fotografia come a qualcosa da conoscere da studiare da imparare e solo in un secondo momento da utilizzare. Quindi avevo un interesse prevalente che nasceva dalla conoscenza e dallo studio e solo in un secondo momento mi hanno insegnato anche ad usarla. Inizialmente ho cercato di usare degli autori che avevo anche studiato. Io credo che in un giornale di oggi si possa serenamente fare a meno di tutto ciò. Ritengo anche che per vivere bene si debbano seguire i propri istinti. Se fare il photoeditor equivalesse a fare la centralinista io sarei morta di noia molti anni fa, per cui sono sempre riuscita a chiedere ai direttori per i quali ho lavorato la possibilità di fare anche altro, perché ho bisogno di cambiare e di conoscere. Sul piano della realizzazione professionale non so dirti se funzioni. Io mi pongo come obiettivo di stare bene al mondo.

Molti giornali possono fare a meno, per come sono fatti, di un photoeditor. Possono utilizzare dei ricercatori iconografici bravissimi e fare lo stesso prodotti di successo che si vendono bene. A Roma ho fatto due mostre di due autori (all’interno del Festival internazionale della fotografia, gli autori sono Moira Ricci e Paolo Ventura) il cui lavoro non verrebbe mai pubblicato sul giornale per il quale lavoro. Li ho conosciuti per caso, mi è piaciuto il loro lavoro. Li spingo perché mi piace lavorare con loro e imparo dal loro modo di vedere e di lavorare.

Se penso anche ad un’altra mostra che hai curato sempre all’interno del festival di Roma, mi riferisco ovviamente a Ereditare il paesaggio, in cui sono presenti alcuni dei maestri della fotografia italiana, oppure a Momenti sempre all’interno della stessa manifestazione e le confronto con i due autori che hai appena citato emerge una grandissima differenza di temi, di atteggiamenti verso la fotografia. Il che testimonia credo la varietà, e vastità, dei tuoi interessi fotografici.

Questo può essere un limite, ma ho smesso di combattere contro questo tipo di cose. A me interessano tante cose, non sarò specialista in niente: mi piace la fotografia di paesaggio per ragioni di famiglia, ci sono cresciuta dentro, da trenta anni è la dimensione in cui conosco meglio anche gli autori, sono miei compagni di strada. Certo probabilmente non vado a fondo in niente.

Riguardo alla considerazione della fotografia nei giornali e in generale in Italia credo si sconti un ritardo legato alla sottovalutazione di questo mezzo da parte di molti intellettuali italiani e credo che nelle redazioni molti giornalisti scriventi troverebbero degradante occuparsi di fotografia.

Ti dico cose tratte dalla mia esperienza. Nella mia esperienza la fotografia sui giornali è vittima della sua natura, ossia dell’evidenza. Chiunque veda con gli occhi ritiene di saper leggere la fotografia. Ci si trova a dover combattere contro la mera fotografia. Tutti quanti basta che riconoscano una faccia, poi non gli interessa se dietro c’è un palo della luce se davanti c’è un telo di plastica, una bottiglia di acqua minerale. Qui dentro per esempio io ho cominciato ad usare una frase per cui tutti mi prendono in giro, e cioè: “questa non è una fotografia”. Tutti i giorni si vedono delle immagini e delle fotografie. Le fotografie rispondono a delle esigenze di interpretazione, di rilettura, di pathos e di cultura di chi l’ha prodotta: cioè la fotografia deve avere in se degli elementi di comunicazione e la capacità di emozionare che trasformano la mera fotografia in una vera fotografia. In questo caso specifico, faccio degli esempi pratici da giornale sportivo. Tutti gli sportivi sono abituati a essere fotografati quando escono dallo spogliatoio, per cui se si chiede a un giornalista sportivo o a un personaggio sportivo delle foto per un servizio, questi pensano sia sufficiente un secondo, anzi 1/60esimo di secondo. Quella non è fotografia, è comunque un’immagine ma non è un’immagine fotografica. L’immagine fotografica è quella che nasce dalla relazione tra il fotografo e il soggetto, da un a sua analisi delle cose, dalla sua capacità di usare un certo linguaggio, della sua cultura, o non-cultura eventualmente. È comunque un’opera dell’ingegno. Per realizzarla ci vuole l’ingegno, non basta la verosimiglianza, non basta la riconoscibilità del soggetto. C’è un altro calambour che noi usiamo: c’è differenza tra una bella faccia in fotografia e una bella fotografia di una faccia. I giornali vogliono una fotografia di una bella faccia, non una bella fotografia di una faccia, questo è evidente. In questo contesto si deve cercare di mediare, di aggiustare e di persuadere. E poi trovare anche chi sappia fare delle belle fotografie di belle facce. L’unica cosa che trovo generalizzabile è che tutti quelli che lavorano nei giornali, indistintamente, pensano di sapere scegliere le fotografie, di saperle vedere e di saperle analizzare. E non è vero.