Benvenuti nell'era delle notizie fatte di bit

Si discute, da anni ormai, sulle conseguenze che l’avvento delle tecnologie digitali ha avuto sulla vita dell’uomo e su molte professioni in particolare, tra cui anche quella del fotogiornalista. Il passaggio da un mondo di atomi ad uno di bit, per dirla con Negroponte, ha scatenato una serie di reazioni a catena che hanno finito per permeare, modificandola, la struttura stessa del vivere sociale. Addirittura, nella loro forma più virulenta, cercando di supplementarla o sostituirla (Il fenomeno ‘Second Life’ ne è un esempio eclatante).
Il rapporto dell’uomo con il lavoro e quello con il prodotto del proprio lavoro sono mutati per sempre, rendendo immediatamente obsolete tutte le teorie economico-politiche nate come loro esegesi o ideologia. Il proliferare dell’eBusiness e la quotazione in borsa degli Internet provider sono probabilmente emblematici della trasformazione di quel carattere ‘sensibilmente sovrasensibile’ delle merci di cui parlava Marx. Le merci oltre ad essere degli oggetti ‘sociali’, cioè contenenti al loro interno la complessità delle relazioni tra gli uomini, sono ora anche ‘inesistenti’, cioè senza un luogo che le contenga e senza un tempo che le limiti. Sono acquistabili nello stesso luogo e nello stesso momento indifferentemente dalla Svezia o dal Giappone. Esposte all’incanto nella vetrina di una pagina web, vivono in una vicinanza non più determinata dalle loro caratteristiche in quanto oggetti(geografiche, stagionali, ecc…), bensì dalla loro comune appartenenza a quel mondo di bit, che le rende prodotti di uno stesso mercato come mai potrebbero esserlo nel mondo di atomi. Nella siderale distanza/vicinanza (distanza degli oggetti di atomi tra loro e vicinanza dei loro corrispettivi oggetti di bit) che c’è tra questi simulacri di merce, si disperde il rapporto sociale fra produttori e lavoro complessivo come un rapporto sociale di oggetti.
In maniera analoga questo processo di ‘smaterializzazione’ del prodotto del lavoro dell’uomo ha trasformato le fotografie fatte di atomi in fotografie fatte di bit. E ora che i giornali cartacei rischiano di scomparire, anche le notizie fatte di atomi stanno divenendo progressivamente notizie fatte di bit. Quali sono le conseguenze, immediate e non, nell’ambito del fotogiornalismo di questa trasformazione?
È evidente come i primi ad essere investiti da queste dinamiche siano stati coloro che con la smaterializzazione delle immagini avevano in qualche modo già a che fare. Coloro che, per rendere disponibile un’immagine dall’altra parte del globo in tempi brevi, affidarono alla modulazione d’ampiezza di un segnale analogico la scomposizione in linee del prodotto del loro lavoro, le fotografie. Questo procedimento, che venne chiamato telefoto, inaugurò nel 1935 (anno della prima trasmissione in rete di un’immagine fotografica) una nuova era della comunicazione.
  • didascalia: Il sistema telephoto, utilizzato dall'Associated Press a partire dal 1° gennaio 1935.

Tuttavia, negli anni analogici del fotogiornalismo d’agenzia questa tecnologia non assolveva altri compiti che quello di trasportare da un capo all’altro di un filo la stessa immagine, esattamente uguale e coerente con se stessa. Vale a dire che ogni linea, o parte dell’immagine, veniva scomposta e ricomposta senza alcuna possibilità di intervento dall’esterno. La situazione cambiò radicalmente quando si passò alla codifica digitale delle immagini per la trasmissione. Affidando a complessi algoritmi, e non più ad un congegno elettromeccanico, la mappatura e compressione delle informazioni, le nuove tecnologie digitali resero possibili interventi via via sempre più complessi. Agendo su questi algoritmi si potevano ora modificare radicalmente le immagini originali. In breve tempo, alla soglia degli anni novanta del secolo scorso, erano già disponibili, insieme alle prime fotocamere digitali, potenti software di fotoritocco.

Tra questi il più noto è Photoshop della Adobe. Lungo il corso degli anni novanta Photoshop ha gradualmente sostituito la camera oscura tradizionale nelle redazioni di giornali e agenzie. Tralasciando le nefaste conseguenze dell’avvento della camera oscura elettronica sulla situazione occupazionale, si è indubbiamente trattato di una vera e propria svolta epocale. Potremmo descriverla come il passaggio dalla fase ‘umida’ alla fase ‘asciutta’ del fotogiornalismo. Questo passaggio è stato naturalmente gravido di nuove esigenze sia pratiche sia concettuali. Fu immediatamente evidente, per esempio, che le enormi potenzialità del nuovo strumento imponevano una parziale rielaborazione della deontologia del fotogiornalista, chiamato a garantire non più unicamente il carattere veritiero delle sue riprese, ma ora anche quello etico delle sue scelte di postproduzione. Nell’era pre-digitale, per un fotografo di una grande agenzia internazionale, che nel gergo del mestiere è chiamato ‘wire photographer’, il lavoro terminava dopo lo scatto. Dopo le riprese un tecnico della camera oscura si occupava di sviluppare e stampare le immagini scelte dal photo editor. Successivamente, durante le trasferte, spesso era lo stesso fotografo a provvedere a questa fase ‘umida’.
Oggi, con l’ausilio di strumenti di postproduzione leggeri e portatili il wire photographer è in grado di provvedere all’editing, ivi inclusa anche la scelta, e all’invio in redazione delle immagini. Si capisce quindi come l’avvento delle tecnologie digitali abbia progressivamente concentrato nella figura del wire photographer diverse professionalità.
Un’altra conseguenza dell’era digitale è stata quella della crescita esponenziale del numero di immagini circolanti. Per la semplicità tecnica della ripresa (oggi è possibile scattare fotografie decenti in quasi totale assenza di luce), per l’immediatezza del risultato, che non necessita di complicati e lunghi passaggi chimici, per la loro economicità, e per la velocità di trasmissione le immagini digitali trasmesse in media dalle agenzie per ciascun avvenimento sono a dir poco decuplicate negli ultimi 15 anni. Naturalmente a questo incremento hanno contribuito anche altri fattori, quasi tutti collegati all’avvento del digitale.

Per assolvere queste nuove funzioni è stato necessario, per il fotogiornalista, ridistribuire le proprie risorse di tempo secondo una nuova visione strategica. Mentre gli eventi che fotografa continuano ad avere all’incirca la stessa durata (con alcune eccezioni in cui la struttura di un evento programmato è stata adeguata ad uso delle mutate esigenze delle riprese foto-televisive), durante questi avvenimenti, per i motivi elencati sopra, il fotogiornalista è in grado, vuole, o gli viene richiesto di scattare un numero decisamente maggiore di immagini. Inoltre, benché ogni singola foto gli si renda disponibile in un tempo infinitamente minore che in precedenza, l’incremento del numero complessivo delle immagini riprese, e delle aumentate possibilità, anche di accrescere i propri profitti, che questa abbondanza gli stimola, determina il dilatarsi dei tempi di post-produzione. Infatti, oggi non basta più che egli fornisca un’immagine tecnicamente ineccepibile dal punto di vista tonale e compositivo (la scelta del soggetto della foto appartiene alla fase precedente), ma gli viene anche richiesto un ulteriore sforzo per la compilazione di didascalie più accurate con l’inserimento di codici e marker che poco hanno a che fare con l’aspetto creativo-documentaristico, ma molto hanno invece in comune con il lavoro che fin qui è stato svolto dalle redazioni e dagli archivi editoriali.

Spesso le immagini che oggi il wire photographer trasmette alla propria agenzia sono pronte, o necessitano di pochissima revisione, per poter essere archiviate secondo gli standard IPTC utilizzati da tutti i grandi archivi del mondo. È facile capire quale risparmio sui costi di post-produzione il committente sia in grado di realizzare potendosi avvantaggiare del lavoro di editing svolto dal fotogiornalista sul campo o successivamente, ma in ogni caso prima di consegnare le immagini. Mi è capitato di recente il caso di un’ importante rete televisiva americana che, avendo chiesto ad un fotografo di seguire le riprese di uno show in lavorazione in Italia, ha poi preteso che tutte le quasi mille fotografie incorporassero nella didascalia elementi di controllo e riferimento per il loro server e che si utilizzasse per questo un software proprietario da istallare e validare con username e password dal loro reparto di Service and Technology. Si tratta di esigenze comprensibili, ma che ci danno la misura di come i tempi, e le competenze necessarie della post-produzione stiano sostanzialmente mutando. Per assolvere tutti questi compiti ulteriori sono stati sviluppati nuovi software di gestione dei flussi di immagini. Senza indicarne uno in particolare basterà dire che tutti condividono il tentativo di automatizzare le fasi della selezione, didascalizzazione, e invio di grandi volumi di immagini. Alcuni si integrano con Photoshop, altri contengono degli strumenti di controllo tonale che ambiscono a sostituirlo.

Ormai il grado di sofisticazione di questi programmi è tale che, per esempio durante la finale del Super Bowl, o della Coppa del Mondo di calcio, i photo editor seduti in tribuna, o a migliaia di chilometri di distanza, vedono comparire sui loro monitor schermate di immagini provenienti direttamente dai fotografi a bordo campo, ordinate secondo l’orario di scatto. Sono quindi in grado di selezionare e editare tutte le immagini di un goal o un’azione ripresi da ogni lato del campo nello stesso secondo. La fase di postproduzione, per quanto si è detto fin qui, ha assunto un ruolo di sempre maggior rilievo nella realizzazione dei servizi fotogiornalistici.
Le nuove tecnologie digitali, oltre ad aver investito il fotogiornalista di nuovi ruoli e responsabilità creano, attraverso un’aumentata versatilità del mezzo, anche nuove opportunità per il freelance, che oggi è in grado di offrire i propri servizi a committenti che una volta attingevano esclusivamente dalle grandi agenzie. Linee ultraveloci collegamenti satellitari e possibilità di editing remoto, sono oggi accessibili al libero professionista a costi assolutamente adeguati al suo budget. Naturalmente, sia per essere competitivo con la concorrenza industriale delle grandi agenzie, sia per distinguere, valorizzandola, la propria produzione, egli deve proporre, e ne ha la possibilità, un prodotto creativo e al tempo stesso di assoluto rigore tecnico a cui i suoi committenti sono abituati. Purtroppo questo scenario molto competitivo può generare fenomeni di deriva deontologica qualora, per rendere più appetibili le proprie immagini, il freelance ceda alla tentazione di modificarle abusando dei software di fotoritocco. Si sono verificati in passato, e continuano a verificarsi, casi di stimati professionisti che, nel corso di assignment lunghi e impegnativi, cedano alla fatica e alla pressione quotidiana della committenza che richiede loro immagini sempre nuove, cercando di rendere più interessanti e perciò più vendibili fotografie che non lo sono in origine. Analogamente, senza molti scrupoli, alcuni giornali ricorrono a volte a pesanti interventi di fotoritocco o discutibili scontornature, non sempre giustificate da esigenze di impaginazione, per sottolineare o avvalorare la propria linea editoriale. Le implicazioni etiche di queste dinamiche e la loro compiuta formulazione costituiscono una delle sfide che le nuove tecnologie ci presentano in questi anni.
Tutti i processi sin qui descritti hanno certamente prodotto un nuovo modo di affrontare la professione del fotogiornalista. Attraverso le sue immagini e la loro diffusione egli contribuisce a fornire una visione particolare del mondo. Per il moltiplicarsi delle immagini circolanti, sia fotografiche, sia televisive, questa visione si va sempre più generalizzando. È ragionevole ritenere che tale tendenza proseguirà fino a costituire una visione abbastanza completa, potremmo anche esagerare chiamandola ‘collettiva’, del mondo reale. Quando la tecnologia 3D sarà sufficientemente diffusa poi, al valore descrittivo di questa visione bidimensionale si aggiungerà quello relazionale della percezione del rapporto delle parti tra loro. In ogni caso, già oggi, ciò che noi conosciamo del mondo appartiene prevalentemente al mondo dei bit. Alcuni studi, peraltro neanche troppo recenti, stimano che ciò che l’uomo medio conosce del mondo, o di ciò che egli ritiene sia il mondo, proviene per oltre il 60% dai media.
Per effetto della digitalizzazione degli stessi media questo 60% (ma temo che questo valore vada aggiornato) è costituito da immagini e suoni digitali.
Nel mondo di bit a cui accennavamo all’inizio, le relazioni sociali degli oggetti di atomi sono diventate rapporti seriali tra gli elementi omogenei ma discreti, di valenza variabile ma limitata dalla loro struttura seriale, degli oggetti di bit.
Su questo nuovo tipo di oggetti si proiettano le coscienze individuali nel rappresentarsi il mondo sensibile. Il mondo come rappresentazione oggi è un mondo molto più denso di quello analogico di ieri. Gli oggetti sono molto più vicini, e lo sono con facilità. In pochi secondi il dolore di una madre, come le gesta sportive di un campione, possono toccare i cuori di mezzo mondo. Solo pochi bit si intromettono sui monitor di milioni di computer per separare i loro simulacri. Le gesta di Achille, di bocca in bocca, hanno impiegato centinaia di anni per assurgere al valore e significato collettivo che oggi hanno.

La sfida che si presenta oggi al fotogiornalista non è più tanto quella di far conoscere mondi lontani a lettori ignari e isolati. Oggi egli ha bisogno di un nuovo linguaggio, che si fondi su una sintassi della vicinanza degli oggetti più che della loro lontananza, della densità più che della rarefazione. Benché l’elefante del Kenia o il minatore cinese rimangano nei loro rispettivi luoghi, tuttavia le loro vestigia di bit, prodotte dal fotogiornalista, sono destinate a dialogare attraverso il carattere ‘sensibilmente sovrasensibile’ di oggetti sociali che conservano anche nella loro nuova vita. La sintassi di questo dialogo, come si è detto, servirà al fotogiornalista per ridefinire l’essenza stessa della fotonotizia. Questo nuovo oggetto di bit non rimanda solo alle relazioni tra gli uomini che lo hanno prodotto o ai soggetti che esso ritrae, esso incorpora anche una natura universale che la smaterializzazione digitale gli conferisce rendendoli sempre coerenti e uguali a sé stessi. Sottratte al loro vincolo materico le fotonotizie conservano con i soggetti ritratti, con i quali hanno ormai perso reciprocità temporale e geografica, un legame prevalentemente semantico. Al contrario del loro carattere di oggetto sociale che si arricchisce ad ogni passaggio, tale legame semantico invece rischia di disfarsi a colpi di istogrammi e di clonazioni.

Per i suoi primi vent’anni di vita Photoshop è stato il Santo Graal all’interno del quale la fotografia giornalistica è stata raccolta e ‘tramandata’. Guardando indietro, come in ogni leggenda che si rispetti, non tutte le vicende di questa pasqua sono sembrate sempre logiche e coerenti, ispirate da rigore e trasparenza metodologica. Il fotogiornalista e il redattore fotografico devono dotarsi di un apparato critico comune e adeguato alla mutata natura degli oggetti con cui hanno a che fare. Come ai suoi esordi la fotografia dovette affrancarsi dai canoni della pittura, proprio perchè ambiva a porsi verso il proprio oggetto con un atteggiamento nuovo e diverso, per tecnica e finalità, così oggi la fotografia digitale, come ci è stata ‘tramandata’ da Photoshop, si presenta, rispetto al suo oggetto, con lo stesso carattere di novità.

Domenico Stinellis