Proprio i Danesi, organizzatori del concorso, hanno fatto storia squalificando il fotogiornalista Klavs Bo Christensen, che aveva partecipato al concorso nel 2009, per eccessiva manipolazione. La giuria decise che si era spinto troppo in là e che i suoi aggiustamenti digitali avevano alterato la “realtà” della foto.
Non voglio entrare qui nel dibattito sempre verde sulla fotografia e la rappresentazione della realtà, né dare un giudizio sulle scelte fatte da questi operatori del settore fotogiornalistico. Ciò che mi interessa segnalare è un fatto, che introduce nuove domande relative all’interpretazione del mezzo digitale e agli strumenti ad esso legati (Photoshop nella fattispecie): la giuria, per prendere una decisione definitiva sulla validità giornalistica del reportage di Christensen, gli chiese, per la prima volta nella storia dei 35 anni del Premio, di fornire in visione i file RAW così come erano prodotti “neutralmente” dalla sua macchina fotografica digitale professionale.
E’ il RAW il nuovo negativo? La prova ultima della verità? Della realtà così com’è veramente? E com’è la realtà vera se gli occhi che la guardano sono diversi? Com’è se le macchine digitali, evolute e sofisticate, si differenziano nel prodotto finale grezzo (il file RAW)…così come le pellicole di marche diverse, in tempi ormai remoti, variavano di luminosità, calore, incisione, etc.
La diatriba, iniziata sul sito dell’unione dei fotogiornalisti danesi,
Pressefotografforbundet, che ha ora stranamente cancellato questo blog dal suo sito per,
si legge , “richiesta del fotografo”, si è estesa a blog internazionali di fotografia e non può essere ignorata.
Come si giudica la “vera” immagine digitale? Quali sono i limiti accettati per la manipolazione delle immagini? Chi lo decide? Cosa rende una foto autentica e verosimile? Quale aggiustamento la rende inaccettabile come rappresentazione (seppur interpretata, com’è tutta la fotografia) della realtà?
Si può calcolare “scientificamente” il livello di autenticità? Quanto si può ritoccare una curva? Quanto contrasto è accettabile? Quali toni vanno considerati distorti?
Le nuove regole del
World Press Photo parlano di “standard”: ma quali sono, chi li ha stabiliti? Il regolamento del concorso
Picture of the Year riporta come necessaria la “buona pratica” (paragonabile cioè alle usuali pratiche effettuate in camera oscura) ma che io interpreto anche come buon senso.
E’ giusto essere rigorosi, ma non rigidi. Dare delle definizioni ma essere flessibili e in un mondo, quello tecnologico, così sofisticato e in continua evoluzione.
Nel mio lavoro come consulente fotografico mi ritrovo ad affrontare mondi differenti del mondo fotografico, editoriale, commerciale, artistico, etc. In ognuno di questi gli standard deontologici e accettati variano.
Nel caso dell’allegato ad un quotidiano come
D-La Repubblica, con cui collaboro stabilmente, il “caso” Photoshop, nella parte del giornale che tratta di attualità (e quindi non le sezioni moda, bellezza, etc) raramente ha suscitato grossi dibattiti interni sulla legittimità o meno di una immagine. In primis, non essendo un news magazine o una rivista di stretta attualità, non ha come contenuto principale l’informazione relativa ad un evento.
D racconta delle storie, delle emozioni, delle atmosfere. In secondo luogo, è una rivista che ha sempre dato molta importanza all’estetica, alla bellezza delle immagini, e, spesso, ai giorni nostri, un’immagine ritoccata (secondo gli standard) risulta più bella, più piacevole alla vista.
Spesso, le storie raccontate, hanno un’atmosfera particolare, voluta, data dal fotografo e dal suo stile (legato alla sua formazione, alla preparazione all’immagine, alla scelta del tipo di stampa, e ovviamente anche a Photoshop).
L’entusiasmo per Photoshop negli ultimi anni, e la grande accessibilità del mezzo, ha forse creato in alcuni casi degli stili molto riconoscibili e ripetitivi che ci hanno allertato sulla necessità o meno di questa manipolazione. I trend stilistici nella fotografia sono sempre esistiti, l’importante è essere chiari su ciò che si vuole comunicare. Serie fotografiche estremamente contrastate, o immagini desaturate quasi evanescenti fanno l’occhiolino al mondo dell’arte (e quindi alla legittimità pura di uno stile personale) senza necessariamente (a mio parere) fuggire completamente al mondo del racconto e del documento.
Dal mio punto di vista, è in corso da tempo un processo di trasformazione della fotografia documentaristica (non strettamente foto giornalistica) che ha promosso un linguaggio nuovo, a volte più concettuale, ricreato, che fa riferimento alla realtà, ma non ad un dato momento decisivo.
Staged documentary: il termine stesso lo definisce. C’è una messa in scena, all’interno di una situazione reale. Si riproduce la realtà con le persone reali, non nell’attimo stesso, ma ricostruendolo. Questo normalmente è un processo che inizia già nella pre-produzione. Una specie di sceneggiatura, l’uso accurato di luci, l’estrema attenzione alla composizione, e ovviamente grande cura nel ritocco finale sul computer: tutto contribuisce a ricreare una realtà così come la si è vista. Questo è legittimo? Credo di sì, nel momento in cui il processo è chiaro e non viene illuso nessuno.
I rischi di Photoshop? Sicuramente l’uso distratto e poco attento del mezzo. Un esempio per tutti è capitato poco fa in redazione. Poco prima della stampa del giornale, i tecnici si accorgono che manca un pezzo di testa ad una persona ritratta. Oddio, cosa è successo? Telefonate concitate con la fotografa, che rispetto molto, e soprattutto il dubbio atroce che avesse fatto qualche aggiunta, qualche ritocco non accettabile. Si scopre velocemente che, più semplicemente, la sua stagista si era distratta nel ripulire l’immagine dalla polvere (era una scansione da negativo medio formato), e “tamponando” qua e là, aveva inavvertitamente asportato una fetta di testa ad una delle protagoniste della foto. Ad occhio nudo non si vedeva, ma per fortuna è stato segnalato. Imperdonabile? No. Ma prestiamo attenzione!
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La veridicità della fotografia, la legittimità della manipolazione digitale.
E’ una discussione senza fine, ma della quale è importante essere consapevoli se parliamo di fotogiornalismo, di documentaristica, di informazione.
Il mezzo è il messaggio, diceva McLuhan. L’utilizzo delle tecniche di manipolazione digitale ci dicono molto del nostro mondo, della rappresentazione della realtà al giorno d’oggi. Ci ricordano che è facile alterare la realtà.
Che dobbiamo essere attenti: l’avvento di nuove tecnologie hanno inevitabilmente conseguenze sul modo in cui rappresentiamo e percepiamo il mondo.
Ce lo insegna la realtà virtuale, la chirurgia estetica, Second Life, i nostri avatar e tutte le modifiche che operiamo sulla nostra identità.
Continuiamo a parlarne.
Arianna Rinaldo
Si ringrazia Maurizio Lodi - ubikphoto , per la foto d'apertura del servizio in homepage