“La fotografia non sa mentire, ma i bugiardi sanno fotografare”. Il bel libro di Michele Smargiassi consiste in una, argomentata e problematica, confutazione di questa massima di Lewis Hine. Come tutti gli aforismi appiccicati in saecula saeculorum al proprio autore, anche questo rischia di fissare una personalità con troppa rigidità. In questo caso forse con qualche ragione. Nel senso che Hine, umanista e filantropo, oltre che sociologo e fotografo documentarista, effettivamente ritenne e utilizzò la fotografia come prova, per sensibilizzare le istituzioni sulla situazione degli immigrati ad Ellis Island, o sul lavoro minorile nell’industria. Parte da questa massima Smargiassi, senza costruirne un’altra uguale e contraria, evitando ogni semplificazione, nonché la costruzione di nuovi dogmi. Riassumendo, il suggerimento è di riconoscere il contesto, alzare le difese, porsi delle domande, guardare con attenzione e ragionare di conseguenza. Né credulità, né totale scetticismo dunque, rispetto allo statuto di prova del racconto fotografico. Il continuo argomentare di Smargiassi, che porta esempi, avanza ipotesi, confuta, ritorna indietro e riconsidera tesi già scartate da nuovi punti di vista, per poi riprendere il filo del racconto attraverso gli inganni e gli illusionismi della fotografia, è l’unico salutare atteggiamento rispetto alla veridicità delle immagini, evitando gli eccessi: considerare che tutto è simulacro, niente è vero, oppure, all’estremo opposto, che la fotografia è nient’altro che la restituzione esatta della realtà. Grazie a questo libro impariamo sia a godere con divertimento (e senza scandalo) degli inganni e degli illusionismi fotografici, sia ad osservare con attenzione critica le immagini, soprattutto nei contesti più sensibili, di testimonianza e documentazione. Infatti, come sottolineato nella premessa metodologica, si decide di analizzare e verificare criticamente il tema verità — menzogna solo in quegli ambiti in cui la falsificazione e l’inganno costituiscono un tradimento, non tanto di una fantomatica e univoca essenza del fotografico (dire la verità, essere sempre e solo una prova, restituire il mondo come è), quanto della fiducia riposta dall’osservatore in conseguenza del contesto, come quello fotogiornalistico ad esempio. Niente però vieta di usare in piena libertà la fotografia in altri campi. L’introduzione inoltre ridimensiona la portata della presunta rivoluzione digitale e l’approdo a una supposta era post-fotografica, ribadendo il necessario, anche se ambiguo, rapporto con il reale di quella che ancora chiamiamo fotografia (diversa dalla pittura digitale), rimasto sostanzialmente inalterato. Il misto di prelievo di realtà e interpretazione è comune alle due epoche. Le falsificazioni e le manipolazioni sono sempre esistite, anche analogiche, e il libro in questo è prodigo di esempi.
La tesi di fondo è che la fotografia per sua natura mente, perché non può fare altro, inevitabilmente, offrendo una possibile interpretazione della realtà, condizionata dai suoi limiti intrinseci: già in sé la rappresentazione del mondo, tridimensionale, su una superficie piana, rettangolare o quadrata (i formati curvi, circolari e ovali, paradossalmente i più vicini alla visuale dell’occhio umano, hanno avuto storicamente poco successo) costituisce una bella astrazione. A cui vanno aggiunti l’inconscio tecnologico dello strumento e l’interpretazione del fotografo, che comincia dalla scelta del soggetto da inquadrare e termina con quella del canale di distribuzione e della modalità di presentazione, attraverso tutte le possibilità intermedie offerte dalla ripresa, dallo sviluppo, dalla stampa e dalla postproduzione. Come si vede, digitale o no, è una continua decisione, più o meno condizionata dallo strumento. Ricordare che la stessa prospettiva rinascimentale, alla base della registrazione fotografica, non restituisce la realtà, ma solo una sua possibile, anche se largamente accettata come naturale, rappresentazione, è un’ulteriore relativizzazione dello statuto di prova e di traccia del reale. Clamorosa in questo senso l’accettazione in quanto “naturale” della convergenza delle linee orizzontali e il fastidio per quello delle linee verticali: anni di rappresentazione pittorica post-rinascimentale sono serviti a qualcosa. La fotografia fa quello che il programma inserito da chi ha progettato lo strumento ha reso possibile. Nel restante spazio di autonomia si inseriscono le scelte del fotografo. Difficile sostenere che questa sequenza di possibilità sia riassumibile semplicemente nel disegno effettuato dalla “matita della natura” (“The Pencil of Nature” di William Henry Fox Talbot è il primo libro fotografico della storia). Le spiegazioni di questo nostro atteggiamento verso la fotografia e il conseguente scandalo verso la menzogna fotografica risiede nell’improbo compito che le abbiamo assegnato a partire da questa idea. Che in sé non è falsa (negare il particolare legame fotografia-realtà, che la rende unica tra tutte le arti visive, sarebbe un paradosso poco produttivo), ma contiene solo una parte della verità.
La fotografia mente con dolo quando, travestita da giudice assoluta del vero e del falso, consapevolmente e di nascosto, senza dichiararlo, inganna, mentendo come mentì Giuda. Con un bacio. Il dichiarato e divertito inganno di Ulisse è invece accettabile e benvenuto, perché spesso sorprendente, illuminante, divertente.
I capitoli del libro descrivono le possibili menzogne fotografiche, rispondendo a 6 domande mutuate dalle 5 “W” del giornalismo opportunamente adattate. L’autore si chiede quale fotografia mente, così pure quando, quanto, come e perchè lo fa, ma soprattutto a cosa serve oggi. Infine regala al lettore 6 semplici regole per affrontare consapevolmente la comunicazione fotografica, con divertimento e curiosità.
Federico Della Bella