Dismettere le vecchie lenti

  • firma: Marco Vacca, 2013

Venti anni di fotogiornalismo più circa altri dieci passati a vario titolo sui set e in studio cominciano ad essere non poca cosa. Se li si guarda con garbo certamente possono essere un buon punto di partenza per una riflessione che non tocchi soltanto il proprio vissuto ma che si spalmi attraverso un’epoca di importanti cambiamenti, giunti fin qui con devastante potenza.

 

I mutamenti epocali, le rivoluzioni portano straniamento, difficoltà ad adeguarsi, a capire il fenomeno. Quanti egregi nemici la fotografia ha annoverato nelle sue primi fasi e poi nella sua evoluzione come media e fenomeno di massa? Da Baudelaire a Brecht passando per Walter Benjamin. Una discreta compagnia, ma niente di allarmante: avevano le loro ragioni (quasi tutte sbagliate, alcune giuste).

 

Vivere nella terra di mezzo può essere un dramma o una risorsa. La differenza sta tutta nella propria elasticità, nella consapevolezza che il progresso non si combatte e il compito arduo è quello di intravederne le possibilità. Bisogna quindi (mi si passi il gioco di parole) dismettere le vecchie lenti e con gran fatica indossarne di nuove. 

  • firma: Marco Vacca, 2011

E’ per questo che mi viene da ridere quando tutt’ora sento diversi grandi vecchi della fotografia difendere la supposta “tradizione” e proclamare più o meno che solo quella è vera fotografia. Ahimè, i problemi ingenerati dalla rivoluzione digitale sono altri, e non hanno molto a che vedere con la “tradizione”. Aver vissuto in un’epoca di mezzo può essere un vantaggio per capire i mutamenti oramai consolidati.

 

Chissà come si sarà sentito chi ha vissuto l’epoca dell’elettrificazione di massa, quella vera, quella dell’arrivo della corrente in tutte le case. Cosa sarà stato meglio: spaccarsi la schiena per lavare i panni o accendere una lavatrice? L’esperienza del lavaggio a mano la si lascia ai capi delicati, così come l’esperienza della camera oscura la si lascia alla conoscenza dei miracoli della chimica e della luce.

 

Sono, come molti miei colleghi più o meno coetanei, nato “analogico”. In più sono cresciuto in uno studio di moda e quindi so che cosa è la “luce”, so come illuminare un vestito o un viso. Sono tuttora schiavo dei dettagli, delle labbra lucide, della luce che “spara”, che porta via tutto e trasforma un labbro sensuale in un ghigno ferale. Ho imparato a controllare l’esposizione guardandomi il palmo della mano, me lo insegnò Marcello Gatti, direttore della fotografia de “La battaglia di Algeri” durante una fortunata lezione in una molto meno fortunata scuola di fotografia romana (ogni tanto ancora ci provo e più o meno ancora ci azzecco). So che sbagliare l’esposizione di più di un diaframma su una diapositiva equivale più o meno a buttare tutto il lavoro. Questo è per esempio il motivo per il quale il cinema gira ancora in pellicola, perché certe latitudini di posa il digitale ancora non le regge.

 

Sono nato analogico e ho vissuto il passaggio delle trasformazioni tecnologiche che hanno cambiato il panorama della mia professione senza ansia e senza altro senso del dovere se non quello che la mia professione porta con sè ed include: raccontare. Ho fatto con i primi corpi digitali quel che facevo più o meno con gli sci: aspettavo i nuovi modelli, facevo passare un anno affinché le nuove diavolerie si sedimentassero e poi sceglievo il meglio senza farmi impaurire delle novità.

 

Ho vissuto il periodo di mezzo della rivoluzione digitale rappresentata dalla diffusione degli scanner con grande gioia per vari motivi: potevamo usare la pellicola negativa (invece di quella invertibile), più economica e con una fantastica latitudine di posa (avere due diaframmi o anche quattro in più, per noi che dovevamo fare i conti con la luce e la velocità di scatto, era un piacere incommensurabile, in più ci affrancava dalla dittatura del flash). Niente più corse all’aeroporto più vicino per affidare i rullini al passeggero più disponibile (che in un nanosecondo dovevi valutare come affidabile) per far arrivare in tempo il tuo lavoro sul tavolo dei giornali. Niente più litigi con il personale di sicurezza per evitare di inserire le pellicole sotto i raggi x. Niente più maledizioni nell’aeroporto di Tel Aviv (il più odioso del mondo al riguardo).

 

Ci portavamo in giro questo magico scatolotto, io ci ho fatto due campagne elettorali in America e i giorni dell’11 settembre. Si trattava soltanto di trovare un buon laboratorio (all’occorrenza un minilab) e passare buona parte della notte a scannerizzare e spedire le immagini. Le connessioni non erano certo quelle di adesso (quantunque anche ora…) e l’FTP prendeva piede solo allora. L’idea di poter seguire la campagna elettorale del 2000 negli Stati Uniti e sapere che la mia agenzia avrebbe avuto la mattina seguente il mio lavoro a disposizione mi dava un piacere inarrivabile. Potenza della democrazia del digitale; noi e le wire agencies partivamo dagli stessi blocchi. Mi ricordo felice ed eccitato da tutto ciò: una specie di meritato regalo alle nostre fatiche. Certo, vedere Diana Walker (White House correspondent per il Time)… far scivolare i suoi rulli di Tri-x in una busta del suo giornale e consegnarla ad un fattorino faceva una certa impressione, ma era anche questo un modo per assaporare la gioia che questo lavoro mi dava contro le tante mezze maniche con cui facevamo i conti nelle italiche redazioni.

 

I primi corpi digitali avevano ancora diverse pecche, non tanto per la qualità del file (che già allora ci sembrava un miracolo di bellezza per l’assenza di grana) ma perché avendo subito imparato la colossale differenza tra un file compresso ed un Raw, volendo scattare in quest’ultimo formato, stante la lentezza della macchina ad acquisire il file, avevamo un’autonomia di 3-4 scatti. Un affronto per noi, che certe volte tiravamo via dalla fotocamera il rullo al 20° fotogramma se la situazione richiedeva maggiore autonomia.

 

Tutto è poi migliorato con la velocità che certe rivoluzioni innescano: nel volgere di una stagione i miei corpi analogici ancora nuovi nessuno li voleva più, attrezzature per milioni di Lire piangono ancora nella mia cassaforte: la mancanza di timing nel mollare la presa può fare grossi danni. Il mercato non è rimasto a guardare, i “wanna be” che la fotografia attrae neanche.

 

Un giorno sono arrivati dei signori (Flikr, Facebook, Google e altri) che hanno detto: questi sono i nostri negozi, vi invitiamo a metterci dentro le vostre merci, ve lo permettiamo gratis: a voi la vostra vetrina a noi i profitti pubblicitari.

 

Da li si sono aperte le cataratte: le dighe che tenevano ben lontano il popolo degli amatori si erano rotte: niente più incertezze su quale rullino usare, niente più laboratorio, via il dilemma tra bn e colore: di punto in bianco la pellicola delle vacanze non restava riposta fino alle vacanze seguenti nel dorso della macchina. Una corsa esponenziale alla produzione fotografica di qualunque cosa era oramai avviata. La nuova frontiera era a portata di mano e come tutte le corse avrebbe portato morti e feriti.

 

Prima di questo cambio di marcia le avvisaglie furono altre. I primi a cadere furono tutte quelle agenzie estere piccole e spesso di qualità, mangiate vive dai colossi insorgenti (Getty, Corbis, alias Microsoft) salvo risputare le ossa dei fotografi che fino ad allora ne avevano ingrassato gli archivi. La crisi editoriale mordeva tutti e forse anche allora l’offerta bypassava di molto la richiesta. Tralascio, per carità di patria e per inconsistenza, la miseria delle vicende e degli attori delle agenzie italiane andate a gambe per aria.

 

Il paradosso è arrivato però dopo. A rivoluzione avvenuta. È impensabile figurarsi il mondo dell’editoria digitale senza immagini ed un uso massiccio di esse è l’asse portante di qualsiasi ristrutturazione editoriale. Però quello che si pagava 100 adesso si pretende di averlo a 1. Si moltiplicano gli appelli tipo: mandateci le foto delle vostre vacanze, partecipate al concorso: vincerete un piatto di lenticchie; voi lettori siete i nostri occhi… E cosi via. C’è Instagram che prova a metter le mani sui contenuti degli altri (e Time e National Geographic, che hanno numerosi account sui social network, gli mandano a dire: sei sicuro che alla fine non spenderai di più in avvocati e cause perse mettendo le mani sulle nostre fotografie senza esserne autorizzato?). Così per ora almeno lì la partita è soltanto rinviata (è di questi giorni l’annuncio che Instagram inizierà ad inserire banner pubblicitari).

 

Nel frattempo i costi di produzione si sono azzerati, o quasi, sbagliare esposizione è quasi impossibile (e se capita, tranquillamente si riesce a recuperare anche uno svarione di 4 stop), la qualità è aumentata enormemente e questo basta al mercato editoriale, italiano in primis, dove la differenza tra professione e divertissement non è mai stata seriamente presa in considerazione.

 

Tutta questa quantità di merce fotografica si è riversata sul mercato sotto forma di social network dedicati all’immagine o di agenzie di microstock, che per un paio di dollari ti concedono i diritti di quel che offrono (e qui la logica che rende queste operazioni possibili è quella che è sempre il banco a vincere, mai il giocatore/fotografo). L’editoria tutta, poi, dove può ruba letteralmente e dove non arriva a farlo pone delle condizioni di acquisto ingiuriose che riflettono l’abbondanza di merce.

 

Nel frattempo però insieme allo spoiling del mercato sono successe altre cose: per esempio è posta alla nostra attenzione tutto quel che succede in qualsiasi angolo del mondo. Le grandi wire agencies si sono attrezzate con miriadi di collaboratori (molti più di quanti ne avessero prima e a costi enormemente più bassi) che immettono le loro immagini nel circuito: questo è reso possibile vieppiù dal fatto che ci si è affrancati per sempre dal laboratorio (casomai ora problema è la rete). Mi chiedo: è un bene o un male? O molto più semplicemente la risposta può essere: è cosi e basta.

 

La cecità dell’italico mercato casomai è dovuta al fatto che i soldi risparmiati in tutte queste enormi economie di scala potrebbero essere investiti in progetti e qualità, ma il nostro giornalismo da questo punto di vista è sordo e muto (e lo è sempre stato) e quindi inutile pensare di cavar sangue dalle rape. Bisogna trovare altre strade, altre forme di finanziamento, altre sinergie che non prevedano, o lo facciano solo accessoriamente, la presenza editoriale come utente finale.

 

Il paradosso del mondo della fotografia è che mentre questa merce si adegua alla legge della domanda e dell’offerta (maggiore offerta, minor prezzo) la stessa cosa non succede per le miriadi di giovani che ambiscono alla professione del fotoreporter. In un mondo normale, se c’è sovrapproduzione di polli, per qualche anno ti metterai a produrre maiali, se ci sono troppi avvocati qualcuno dovrebbe convincerti (o obbligarti?) a diventare medico. Queste regole nel nostro mondo non valgono e certe volte penso che quello del fotoreporter sia una specie di non-lavoro in cui valgono più le sopravvalutazioni personali (e le componenti psicologiche e psicanalitiche) che non gli sbocchi o le proprie competenze. Di fatto al mestiere difficilmente si accede dai normali binari scolastici e accademici, come accade per altre. Ma se ti senti strano, incompreso, con tendenze artistiche o frequenti un centro sociale, sei volte su dieci il primo pensiero sarà quello di imbracciare una fotocamera, e come biasimarti!!

 

La tecnologia digitale non ha più di 10/15 anni ma è in questi ultimi periodi che comincia a farsi strada una consapevolezza, nascosta, inespressa, da esplorare, alimentata certamente da sempre migliori apparecchi.

 

Tanto per fare un esempio chiarificatore e magari arbitrariamente fissare la data di una maturazione: la fotografia con la quale il povero Tim Hetherigton ha vinto il World Press Photo del 2007.


  • didascalia: A soldier of Second Platoon, Battle Company of the Second Battalion of the US 503rd Infantry Regiment sinks onto an embankment in the Restrepo bunker at the end of the day. The Korengal Valley was the epicenter of the US fight against militant Islam in Afghanistan and the scene of some of the deadliest combat in the region.
  • firma: Tim Hetherington
  • fonte: Archivio World Press Photo
  • nota: Year
: 2007 Photographer
: Tim Hetherington Nationality: 
United Kingdom Organization/Publication: 
Vanity Fair Category
: World Press Photo of the Year Prize
: World Press Photo of the Year Date: 
16-09-2007 Country
: Afghanistan Place
: Korengal Valley

Guardatela bene: l'espressione devastata dalla stanchezza e forse dallo sconforto del soldato americano appartenente al 503° reggimento di fanteria (come recita la didascalia) la sua mano che copre parte del viso, la bocca aperta, l'altra mano che sorregge il suo elmetto: la luce fioca e quei toni scuri, polverosi, come da trincea. Sono quasi sicuro che una pellicola non avrebbe risposto allo stesso modo e non ci avrebbe restituito esattamente lo stesso racconto. Sarebbe stata un'altra fotografia, una frase diversa, più dura probabilmente.

 

Eccola qui tutta dispiegata la nuova dinamica narrativa in tutta la sua potenza. Siamo semplicemente più ricchi, o forse ricchi in modo diverso. Ricchi di raccontare, capaci di sottigliezze narrative che prima erano molto più complicate, quando non impossibili se non attraverso lunghe sedute e estenuanti raccomandazioni al nostro stampatore esperto.

 

C’è poi la lunga e (spesso inconcludente) diatriba sulla manipolazione. Fin dove è lecita? Quanto la postproduzione negli ultimi anni ha dilagato fin a diventare stucchevole e poco creativa? Di certo ciò che era di esclusiva competenza degli stampatori (e di chi si poteva permettere certi lussi) è ora diventato “democratico”, alla portata di tutti. Ed è altresì vero che molto si è confuso anche a causa dei pochi attori in grado di dare una personalizzazione sensata alla foto che veniva sottoposta al ritocco. Normale prezzo da pagare nei periodi di passaggio, nelle confusioni che precedono la sedimentazione di genere, e non ultimo, all’eccessivo affollamento e allo spirito di emulazione. Da qui ad arrivare all’abolizione dei WPP (come da alcuni richiesto) per via delle polemiche sulla foto vincitrice di quest’anno, ne corre.

Sopravviveremo a tutto questo, come dice il buon Fred Ritchin? La risposta è sì, a condizione di innovare e fare qualcosa di diverso che non sia la foto opportunity del politico o della starlette di turno, perché per quello vanno bene le torme di amatori pronti a qualsiasi cosa.

 

C’è bisogno ancora di qualità, di storie che abbraccino il più possibile tutte le nuance narrative che il web ha portato con se. E’ il mercato che decide: se vuoi battere i cinesi ti metti a fare le Tods, non prodotti di cui il mercato è saturo.

 

Ma certe volte sembra che i colleghi da queste regole si sentano esentati.

 

 

 

(NdR: a margine di questa riflessione ci sentiamo di proporre una retrospettiva per immagini dello stesso Marco Vacca: Twenty years and counting, a selection of pictures along 20 years of photojournalism http://vimeo.com/75085069 )