Slow what?

  • firma: Marco Vacca

Il mondo non si ferma in attesa che tu decida di rappresentarlo, a meno che tu non scelga di raccontare quel che è immobile, ma quel che è immobile forse non ha bisogno della fotografia  per essere raccontato, perché questo strumento narrativo ha come potente ed innata peculiarità quello di, come la vulgata narra, fissare un istante, il che ha molto a che vedere con il tempo e la mutabilità dell’essere.
Se questa condizione cade o non è fondamentale ai fini del discorso ecco qui che essa è inutile. A meno che non si abbia l’innato dono, e pochi lo hanno, di dar vita e poesia agli oggetti inanimati.
Faccio fatica a capire cosa si voglia o cosa significhi “slow photo", anche se fatico a ricavare una qualche similitudine con il cibo: se mangio lentamente o cucino con dedizione, lasciando il tempo agli ingredienti di amalgamarsi, poi ne assaporo le pietanze, ne apprezzo gli ingredienti  e soprattutto faccio bene alla digestione. Se invece mi comporto come un bradipo o mi diletto tra pensieri ed ispirazioni, probabilmente tutto quel che avevo visto e volevo fermare sarà andato via per sempre. Prima ancora di cominciare.
Se inchiodo l’occhio nel mirino per non perdere di vista quel che mi scorre davanti è perché sono sufficientemente certo che quel che sto cercando è li e sarò in grado di catturarlo, magari non al primo fotogramma, neanche al secondo, essendo spesso quelli soltanto avvicinamenti, segnali di quel che la mia mente ha intuito. Se sono veloce e concentrato otterrò quel che cerco.

  • firma: Marco Vacca

Temo invece che questa poco felice definizione, che si vorrebbe tendenza, abbia molto a che vedere con quei simpatici corto circuiti che si chiamano autoreferenzialità, ego, presunzione di cui il mondo dell’immagine è pieno perché in fin dei conti è più facilmente spendibile, non disturba e lascia nell’ignoranza.
Ho un innato fastidio per tutto quello che in questo mondo viene spesso spacciato per espressione artistica, nuova comunicazione, improvvisazione, essendo questo  un ottimo paravento per coprire di lustrini il proprio ombelico. La costante di questo sottogenere è che nel rettangolo (o quadrato, noblesse oblige) non accade mai niente.
Ci si sforza di immaginare  le motivazioni che hanno prevalso nella testa dell’artista ma ahimé  lo sforzo è vano per il semplice fatto che le interpretazioni possono essere migliaia, una  per ogni sguardo che si imbarcherà in questo tentativo: negando de facto la logica del significato e dell’attribuzione, basilare in un  linguaggio come nella fotografia.
In ogni linguaggio per essere funzionale alla comunicazione ci deve essere intesa sulle regole: una "a" è una "a".  Se dico "casa" devo essere sicuro che il mio interlocutore capisca cosa significo.

  • firma: Marco Vacca

Tempo addietro si diceva tra colleghi che l’avere sempre in tasca uno smarphone ha riportato in auge quello che una volta era la figura del fotografo che aveva con sè l’apparecchio sempre a portata di mano: il mondo gira, noi siamo qui per raccontarlo e non dobbiamo mai farci trovare impreparati: lui non ci sta ad aspettare. L’idea che ci si possa abbandonare ad elucubrazioni e respiri lunghi e gestatori di un'immagine mi sembra una panzana. La fotografia  ha bisogno di pazienza, acume, intuizione, velocità, resistenza, attenzione, disponibilità al dolore, forma fisica, rinuncia, amore. La poesia intrinseca nell'immagine è figlia di quella, trasuda dalla merda che il mondo produce, o dall’incanto che ci concede. A meno che non si decida che l’essere umano non valga la pena di essere indagato nella essenza primaria che è quella della socialità: è quello che fa, con molta furbizia, la comunemente definita fotografia del territorio. In quel mondo tutto è possibile, perché tutto significa: basta levar di mezzo l’essere umano e concentrarsi sulla giungla che lo circonda: architetture, cartelli stradali, campagne infinite, you name it. Le conseguenze  o le inferenze sta a voi capirle. E se non arrivate ad unire le linee tra i segni e a trarre le giuste conclusioni non sarà certo colpa dell’autore.
Che il mondo sia diventato più frenetico come molti denunciano mi sembra tutto sommato una banalità: andatevi a rileggere quel che pensava Baudelaire della fotografia in piena e rutilante rivoluzione industriale ed avrete un quadro del suo spaesamento relativamente ad un'arte che sgomitava a forza tra i pittori e si faceva largo tra la borghesia ed il popolino: è così che sarà destinato a farsi  raccontare il mondo, in una chiave narrativa democratica non  più appalto delle corti e dei mecenate. Quando si richiede tempo  alla fotografia mi sembra di sentire per altri versi di nuovo quelle voci spaesate, allora giustificate dall’enormità del passaggio d’epoca.

  • firma: Marco Vacca

Quello del fotoreporter è un mestiere, non è uno stato d’animo. Pretende di raccontare quel che accade e quel che ci colpisce, piegandolo alla nostra grammatica ed al nostro stile: le trasformazioni tecnologiche di questo primo scorcio di secolo hanno di certo mutato il panorama della rappresentazione fotografica arricchendolo: è da li che bisogna partire per immaginare, attraverso l’innovazione, nuovi linguaggi adatti ad un pubblico vecchio e nuovo. Ci sono giornali intelligenti, ad esempio il New York Times, che capiscono la forza dell’immagine ed il ruolo del web ed investono in esperimenti e tentativi di nuovi contenitori. Penso ad esempio a Snowfall  o anche a Invisible child  e ci sono giornali stupidi e vecchi (La Repubblica, Il Corriere della sera) che tentano di sopravvivere nel web usandolo come una sorta di secchio della spazzatura.
Senza competenze, senza professionalità, con l’arroganza italica del giornalismo scritto che si sente unico portatore di salvezza e verità.
La partita è tutta li, non nelle slowphoto, non nell’ammirazione del proprio io attraverso il foro stenopeico, non nelle astruse forme di fotografia, cura della mente e dell’anima. L’occhio è nato per guardare fuori, e per raccontare per il dentro ci sono altri strumenti ed altre professioni. E raccontare non è per tutti: bisogna avere l’umiltà di ricordare che altri guarderanno. E mettersi nei loro panni.
La sfida è nella narrazione, nel continuare a raccontare e trovare nuove strade (e nuovi mezzi per finanziarle). A meno che non si decida che il reportage è morto e nel mondo non c’è più niente che valga la pena raccontare.
Fare il Cincinnato e ritirarsi  in campagna ad elucubrare è solo un lusso.

Marco Vacca