Ancora sulla "Buona fotografia"

Traduzione dell’intervista di Fotografia & Informazione (F&I) ad Anja Niedringhaus (A.N.)

Anja Niedringhaus, autrice della fotografia del soldato Italiano davanti alle rovine della base del comando italiano a Nassiriya (vedi il nostro Osservatorio "La buona fotografia"), all’epoca dell’attentato si trovava a Bagdad per conto dell’agenzia Associated Press. Ha accettato di rispondere via e-mail ad alcune domande che le abbiamo posto. Il tema dell’intervista è il lavoro del fotografo inviato in contesti bellici e la problematica relazione con il mercato dei media. Le risposte dell’intervista, che traduciamo dall’inglese e pubblichiamo per intero, ci sono giunte il 26/12/2003.

 F&I: Come sono andate le cose? Dalle prime e parziali ricostruzioni dei fatti risulta che tu fossi a Bagdad la mattina dell’attacco suicida alla base italiana di Nassiriya e che tu sia riuscita a raggiungere il posto solo dopo il tramonto. E’ così?

A.N.: Sì, quando ci è arrivata la notizia dell’attacco suicida a Bagdad erano le 12:30 ora locale e dono partita un quarto d’ora dopo. Ho preso un telefono satellitare e sono partita in macchina con un autista. All’arrivo a Nassiriya era ancora giorno, le 16 circa, ma per quando sono riuscita ad avvicinare la base italiana si erano già fatte le 17:30.

 F&I: A che ora sei arrivata? Quanto tempo ti è stato concesso e cosa si poteva fotografare?

A.N.: Sono arrivata sulle 17:30, forse un po’ più tardi. Era già buio e quando ci hanno fatto finalmente passare ci hanno permesso di fotografare per un paio di minuti.

 F&I: C’erano altri giornalisti, troupe televisive o media in quello stesso momento lì con te?

A.N.: Assieme a me è entrata anche una squadra della RAI TV, dato che tutti gli altri giornalisti che erano arrivati prima di noi dalla città di Bassora [che, rispetto a Bagdad, si trova a minore distanza da Nassiriya, n.d.t.] se n’erano già andati per motivi di sicurezza. La troupe della RAI ed io siamo stati i primi ad arrivare da Bagdad. Precedentemente, alcuni fotografi avevano fatto delle foto ai feriti nell’ospedale e avevano ripreso alcune scene dopo lo scoppio. Un giornalista Portoghese era a Nassiriya al momento dell’attentato. Più tardi sono arrivati e sono riusciti a passare anche altri giornalisti da Bagdad.

 F&I: Mentre stavi facendo quella fotografia o più tardi mentre facevi l’editing sul computer, avevi un qualche presentimento che fosse destinata a diventare LA sintesi visiva di quell’evento tragico, come è poi stato confermato dal generale consenso da parte dei media?

A.N.: Quando finalmente siamo riusciti ad arrivare all’interno della base Italiana, i soldati ci tenevano ancora un bel po’ a distanza. Così all’inizio sono riuscita ad usare solo teleobiettivi. Per un attimo sono riuscita ad avvicinarmi un po’ e ho visto quel soldato Italiano che stazionava davanti all’edificio distrutto e che si teneva la testa. Il mio riflesso è stato istantaneo e la mia sola speranza a quel punto era solamente quella che la foto venisse proprio come l’avevo vista, dal momento che la luce era veramente schifosa. Dopo aver fatto la foto, sapevo che era proprio quella che avevo cercato, per cui non ho avuto alcun problema quando i soldati italiani ci hanno detto che il tempo a disposizione era finito: stavo già avviandomi all’uscita. Sapevo che, a quel punto, non sarei riuscita a fare niente di meglio.

 F&I: Eri consapevole che quel movimento casuale del soldato, probabilmente fatto con l’intento preciso di sistemarsi l’elmetto, avrebbe finito per suggerire a chi guardasse la foto un gesto di "disperazione", "scoraggiamento", "dolore" e così via?

A.N.: Il suo gesto mi ha fatto soltanto una forte impressione e non ero cosciente del fatto che la foto avrebbe avuto un tale impatto sui lettori. Ne avevo la speranza, ma succede così spesso che tu fai una foto che esprime quel che vedi e senti e poi, il giorno dopo, non c’è alcun tipo di riscontro.

 F&I: Eri cosciente del fatto che una fotografia fatta otto ore dopo l’esplosione, quando tutti i cadaveri e i feriti erano stati trasportati via, il posto era stato "ripulito" e l’edificio evacuato, una foto che quindi trasmetteva poca informazione giornalistica, eppure dotata di un forte impatto emotivo e simbolico, sarebbe alla fine stata scelta dalla maggior parte dei media?

A.N.: No, per niente. Io sono soltanto andata giù a Nassiriya per vedere se riuscivo a fotografare almeno il "dopo", le "conseguenze", dato che per arrivarci in macchina ci ho messo quasi quattro ore. Ero quasi sicura che non sarei riuscita a fare niente, ma che comunque valeva la pena provarci. E poi siamo giornalisti, e quindi abbiamo il dovere di andare a vedere cosa è successo. Io sono molto felice che tanti giornali abbiano scelto quella foto, anche se è stata fatta molte ore dopo l’attentato. E’ una fotografia tranquilla e molto semplice.

F&I: Sei d’accordo che la tua foto rimarrà con ogni probabilità come l’unica icona di quell’evento?

A.N.: Veramente non mi sento di parlare delle mie fotografie. Ma se questi sono i fatti, mi sento veramente onorata. Personalmente, credo che questa foto sia molto forte perché è così semplice.

F&I: Pensi che i fotogiornalisti, partendo dalla considerazione che i giornali e le riviste apprezzano in maniera XXXX questo genere di immagini, tendano a fare prevalentemente questo tipo di immagini, più simboliche, più metaforiche, meno descrittive?

A.N.: No, non credo. Certo, se fossi stata sul luogo dell’attentato quando è avvenuto, di sicuro le mie foto sarebbero state diverse. Come del resto è avvenuto in occasione di molte altre esplosioni e disastri che ho fotografato in Iraq prima di questo. Spero che i fotografi non puntino a fare certe immagini pensando che potranno essere utilizzate da giornali e riviste. Noi dobbiamo esprimere, in maniera molto individuale, ciò che vediamo: soltanto questo è onesto.

F&I: Di quel terribile evento a Nassiriya avevi fatto altre foto che a tuo avviso erano più interessanti da un punto di vista giornalistico, in quanto capaci di offrire più informazione della scena di cui eri stata testimone? E se sì, quali elementi mancavano in esse per non essere state scelte?

A.N.: No, la foto che ho trasmesso per prima è stata quella del soldato Italiano davanti all’edificio sventrato, perché per me era la più forte. E ho pensato che se la linea del telefono satellitare fosse caduta, almeno sarei riuscita a trasmettere quella foto. Ne ho trasmesse delle altre, perché lavoro per una agenzia e quindi devo offrire più alternative: orizzontali, verticali… Ma le restanti fotografie non significavano molto per me. Erano altrettanto buone, ma il mio cuore non era con loro ("my heart was not with them", n.d.t.).

 F&I: Hai ricevuto "congratulazioni" dai colleghi o da altri funzionari dell’Associated Press per l’indiscutibile successo ottenuto con questa foto?

A.N.: Molte, perfino immediatamente dopo aver trasmesso la foto. Ho ricevuto e-mail da persone che non conosco per niente che si congratulavano con me. E questa cosa è andata avanti per un paio di giorni: veramente incredibile. E inoltre AP ha selezionato questa immagine come la vincitrice nella nostra competizione interna che chiamiamo "Beat the week".

 _______________________________________

Intervista e traduzione a cura di Marco Capovilla