La notizia, l’immagine, la storia. Come racconti la fotografia nel giornalismo?

di Alberto Ferrigolo

Presentiamo una riflessione fatta dal giornalista Alberto Ferrigolo (per molti anni redattore de il manifesto) sul rapporto tra il giornalismo italiano e la fotografia. Fa parte di un più ampio articolo apparso sul numero 4/2003 della rivista trimestrale Problemi dell’Informazione.
Per motivi di spazio siamo stati costretti a fare qualche taglio alla lunga riflessione, ma desideriamo sottolineare, al tempo stesso, l’importanza di leggere per intero il saggio, al fine di rintracciare quegli elementi che conferiscono completezza all'analisi di Ferrigolo.
All’autore dell’articolo e al direttore della rivista, Angelo Agostini, va il nostro ringraziamento per averci consentito la ripubblicazione.

Un grande paradosso si aggira per il mondo editoriale e del giornalismo tutto, e si chiama: fotografia. O fotogiornalismo che dir si voglia.
Cercata, ricercata, commissionata, scattata, all'impronta o d'autore, la fotografia trionfa oggi giorno sulle pagine dei giornali come mai forse era accaduto prima. Se si esclude lo «stile Life», che d'oltreoceano giunse fino a noi contaminando, influenzando e  anche egemonizzando  l'Italian style (Epoca tra tutti, e poi l'Europeo, Panorama, L'Espresso, talvolta con più o con meno rigore, e con la sola eslusione dell'Omnibus di Leo Longanesi o de Il Mondo di Mario Pannunzio che hanno sempre avuto uno stile documentaristico dell'immagine tutto proprio). Con l'ulteriore paradosso che oggi lungo le pagine di mensili, settimanali, riviste in genere - e anche dei quotidiani - scorrono spesso più foto che testo. In tutte le taglie e dimensioni e nella più vasta gamma di sfumature, soggetti, argomenti. O dove il testo, quando è esteso, assume - al massimo - la dimensione della «didascalia lunga» e non sempre contestuale, opportuna, appropriata.
Nella civiltà cosiddetta dell'immagine o delle immagini, per usare uno stereotipo massmediologico e descrittivo assai diffuso, era chiaro che sarebbe accaduto anche questo. E che accadesse nessuno poteva escluderlo con sicurezza. Bombardati dal fotogramma e dal «fermo immagine» come siamo, da scatti simbolo o icona, dai tanti (troppi?) punti di vista sul presente e da angoli di visuale inediti, quel che sembra mancare di più, però, è la cultura conseguente. Ovvero la cultura dell'immagine in sé e per sé, che spesso non c'è, quando addirittura è proprio assente. Anche nei giornali, s'intende, e, in particolare, al momento di mettere la foto in pagina. Dal punto di vista strettamente giornalistico poi – ovvero della narrazione –, forse si potrebbe semplicemente dire che manca la «critica» dell'immagine o all'immagine, se non fosse per la solitaria voce di Carlo Arturo Quintavalle che se ne occupa stabilmente e con scrupolo, ma si tratta infatti di uno storico dell'Arte e non - appunto - esclusivamente di un critico di fotografia, anche se di questa si premura di parlare con una certa assiduità.
Insomma, si decodifica poco e non si destruttura, non si scompone affatto. Si vedono le scene scorrere e, paradosso dei paradossi, i cosiddetti «critici» le ri-raccontano ancora una volta o per l'ennesima volta ancora, illustrano - foto alla mano o sotto gli occhi - e volgarizzano per il pubblico quando un tempo si sosteneva, invece, che «l'immagine parla da sé» (ha sempre parlato da sé) senza bisogno di commenti o didascalie illustrative a corredo.
Oggigiorno, invece, tutto è racconto nel racconto, trama nella trama (non solo in fotografia ma anche nella critica teatrale, in quella cinematografica, salvo rarissime eccezioni). Non c'è più critica del testo e del suo contesto storico, storiografico, sociologico e anche tecnico, ovvero di quella particolare tecnica narrativa che ha a che vedere con la luce, l'esposizione, l'impressione del rullino, lo sviluppo, la stampa, la carta e - prima ancora - la macchina scelta, la marca adottata, la tecnologia applicata, ma c'è solo il riassunto, enfatizzazione o meno di ruoli e personaggi in vaghe - talvolta - letture psicanalitiche e retroscena d'ambiente. Nel giornalismo e nella sua dimensione iconografica, dunque, prevalogono come sempre le storie e il loro ri-racconto, con qualche paradosso...

Da un paio d'anni a questa parte si tiene a Roma una manifestazione che ha per titolo FotoGrafia e, per sottotitolo, «Festival internazionale». Patrocinatore è il Comune della città e il grande sponsor dell'iniziativa è il Sindaco di Roma in prima persona, direttore artistico il fotografo Marco Delogu. FotoGrafia si svolge a tema: quello del primo anno è stato «La memoria», quello del secondo «Roma e le comunità». Comunità straniere ma anche etniche e comunità professionali, d'arte, di mestiere, di appartenenza in senso lato e in giro per tutto il mondo: così i Cow boy con i loro riti e i loro miti (l'abbigliamento, il corpo, la bellezza) o la comunità delle ragazze di Los Angeles, che allo scoccare del diciottesimo anno di età, anziché il regalo classico (l'autovettura dopo aver conseguito la patente), chiedono invece ai genitori uno stravagante «buono omaggio» per potersi rifare il naso o i seni presso qualche centro estetico, eccetera, eccetera, tanto per citare due esempi in mostra che hanno toccato  la curiosità dei mass-media decretando il successo di pubblico. Ma anche la comunità dei Mennoniti oppure quella dei desaparecidos cileni durante la dittatura del generale Augusto Pinochet, a trent'anni dal colpo di Stato in quel paese. E poi le comunità come melting pot classico, visibile e percepibile ad occhio nudo agli angoli delle piazze o nelle strade delle nostre città (gli zingari, rivisitati anche storicamente attraverso l'occhio di Franco Pinna, per esempio).

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Il punto di vista che qui si narra è peculiare e privilegiato insieme. Perché è il punto dell'osservazione di chi si è trovato a dover promuovere, reclamizzare, «vendere», far conoscere al grande pubblico, attraverso i giornali, le riviste, i settimanali, la televisione, i siti Internet - che sono la fonte princiale di informazione generale e generalizzata - una manifestazione che si occupa, appunto, di fotografie, di immagini filtrate da altri occhi. E allora si possono rintracciare tutti i vizi e i tic dell'informazione, che sono poi i vizi e i tic dei suoi uomini (e donne)-macchina migliori, i tanti capiservizio, i capiredattori su su fino ai direttori e ai loro vice, i quali devono scegliere le foto e i servizi da pubblicare sulla base di quel che offre il materiale da esposizione (oltre 2.000 immagini per più di 150 fotografi abbiamo già ricordato, immagini  per le quali i media hanno accesso solo a una ristretta selezione). Ma nonostante l'offerta c'è chi, come quella caposervizio di un mensile femminile - che per altro avrebbe dovuto trattare la monografia di un numero sulle comunità (che però, alla fine, non vedrà mai l'edicola) - che si lamenta perché non c'è nulla che ritragga la comunità eritrea a Roma, sì proprio quella (senza contare che i Festival di fotografia, in genere, non sono produttori in proprio, se non in minima parte, perché dover commissionare e chiedere foto appositamente per l'allestimento di una mostra richiederebbe spese non altrimenti sostenibili). Oppure il direttore di un importante mensile di un gruppo editoriale italo-francese - cultura, svago e tempo libero (mostre, concerti, teatro, danza, cinema e appuntamenti vari) - che desidererebbe sicuramente pubblicare uno scatto «purché in esclusiva» di Josef Koudelka (l’unico reporter ad aver prodotto un lavoro appositamente e davvero «in esclusiva» per l'inziativa romana, anche se non sono mancate produzioni ad hoc come Foto_xenia, Architettura rom, Michal Rovener e qualche altro) ma che vi rinuncia perché non vuole in ogni caso pagarlo (né tanto né poco: gratis; ma farebbe altrettanto con l'articolo di un noto giornalista, il racconto di uno scrittore famoso o in erba fa poca differenza, il saggio di un professore accreditato?). O, ancora, il photoeditor dell'importante quotidiano che visita il festival e poi se ne torna a casa ma non scriverà mai una riga: né bene né male, né pro né contro. Indifferenza assoluta (che è quasi peggio). Motivi di spazio? Pigrizia? Non si sa. Però nemmeno una riga.

E se a 35 anni dagli avvenimenti dell'agosto '68, Josef Koudelka continua ad essere annoverato come il fotografo della «Primavera di Praga» o dei reportages sugli zingari (salvo il fatto che il principale quotidiano economico-finanziario lo definisce in una «finestra-civetta», sbagliando clamorosamente - ah, quando i caporedattori titolano senza nemmeno aver letto quel che titolano! - come «l'ex cronista della primavera praghese che deforma creativamente la realtà con l'uso del computer»..., ma quando mai?) e Don McCullin viene citato in articoli vagamente stereotipati come l'autore degli scatti sul Vietnam che «l'hanno reso famoso», chi «buca» facilmente le pagine della stampa in genere è Sebastiao Salgado, che con il suo reportage sulle piantagioni di caffé in Brasile, sponsorizzato da Illy, mecenate dell'immagine e dell'espressione artistica in genere, ha dilagato su ogni genere di testata. Salgado si conquista l'accesso in pagina (e più e più pagine!) con una facilità senza precedenti, ma si capisce anche il perché: il servizio fotografico è offerto ai giornali gratuitamente e lo sponsor è di per sé una potenza economica, che apre tute le porte mediatiche e che non solo pubblicizza la propria mostra all'interno del Festival di FotoGrafia comprando intere ultime pagine sulla stampa quotidiana e sui settimanali, ma è solitamente degli stessi un grande inserzionista tutto l'anno. Il trattamento giornalistico, perciò, è di riguardo. Ma anche in questo caso, non c'è articolo che entri nel merito del servizio fotografico, della sua qualità e si discosti da ciò che allega nell'apposita cartellina, unitamente alle foto, l'ufficio stampa Illy.
Di fatto, solo l'articolo di Dante Matelli, apparso su L'espresso, tenta in qualche misura di contestualizzare il lavoro del fotografo brasiliano ponendo un solo accento, che però è rivelatore dell'impostazione dell'intero lavoro fotografico: «A botta calda, uno si domanda: è cambiato il mondo oppure questo è un altro Salgado?». Cioè quel Salgado conosciuto per le sue foto crude, di denuncia, cioè quello di «uno scatto una pena, un dolore una posa (...), quello che ha inglobato tutti i mali del mondo nella sua Leica». Qui, osserva Matelli, è «un Salgado più umano», edulcorato, quasi patinato, persino più scontato e banale, ovvio, illustrativo, sembra insinuare il giornalista. Potenza (influenza) dello sponsor, del committente? Matelli non è un critico fotografico, è un inviato estero da «zone calde», di confine, e ancor prima un giornalista culturale di livello (cinema, letteratura, anche cronaca, costume), con un ampio background giornalistico, di letture fatte, di sceneggiature scritte (tra tutte, L'ultima donna di Marco Ferreri). Ed è proprio sulla base di questo bagaglio personale e professionale che ha colto nel segno, ha disvelato un punto critico (o debole) di quella mostra allestita al nuovo Auditorium romano di Renzo Piano, che non ha certo affascinato il pubblico, tantomeno quello del vernissage, lo stesso che ha trovato lo sguardo del fotografo, il suo punto di vista, troppo patinato, da buoni sentimenti, vagamente «da cartolina» anche nel rigoroso bianco&nero.
Per opposto, e persino paradossalmente, la stessa mostra ha incontrato il favore e le simpatie di Liberazione, l'organo del Prc di Fausto Bertinotti diretto da Alessandro Curzi e Rina Gagliardi, che ha definito il lavoro di Salgado «un reportage sociale sui lavoratori del caffè», uno sguardo sulla «dignità». Ma l’approccio al mondo del caffè sembra discostarsi molto dalla sua produzione tradizionale e anche dalle intenzioni annunciate in un colloquio con il Corriere della Sera (17 ottobre 2003) alla vigilia della sua partenza  per il Progetto Genesi: «Continuerò a raccogliere immagini di denucia».

Un altro «caso» di giornalista non di settore, dunque non esperto di fotografia, che però s'è confrontato con la materia prima in modo assai interessante, è quello di Maurizio Matteuzzi. Inviato del manifesto , esperto di America Latina e Terzo mondo, ha scritto su «Cile, 30 anni: 1973-2003», la mostra che ha affrontato il tema del colpo di Stato dell'11 settembre di trent'anni fa, appunto, ad opera del generale e dittatore Augusto Pinochet. Matteuzzi annota nell'incipit che «forse bisogna avere un bel po' di primavere (e di autunni) sulle spalle per capire fino in fondo tutta la tremenda valenza emotiva - prima ancora di quella più propriamente "artistica" - della mostra fotografica». Un problema di memoria e di memoria storica, in particolare, con cui varrebbe (vale) la pena di confrontarsi.
Matteuzzi entra subito nel merito e trova poco condivisibile l'affermazione contenuta nel catalogo «per cui dopo il golpe del '73 "è come se il Cile, inconsciamente, fosse scomparso dalle mappe per tornare a essere rappresentabile solo nel 1998, al momento dell'arresto del dittatore", a Londra». Il giornalista osserva invece che «in quei 17 anni di dittatura di Pinochet, al contrario, il Cile non è mai scomparso dalla coscienza nostra e - senza voler esagerare in prosopopea - dell'umanità. Semmai, forse, è vero che il Cile è "scomparso" dopo il ritiro del vecchio macellaio sconfitto nel plebiscito del 5 ottobre '88 e l'avvento nel '90 di un sistema parzialmente democratico. Questa "presenza" del Cile come una ferita aperta è testimoniata dalle due sezioni più importanti della mostra - la serie di migliaia di "provini" che fissano gli eventi di quegli anni terribili e la serie dei ritratti a volte sfuocati dei desaparecidos -, che forse non sono quelle "artisticamente" più valide (ma che significa poi "artisticamente"?) ma sono di sicuro quelle che restano più indelebili. Il pregio maggiore di "Cile, 30 anni: 1973-2003" - scrive ancora Matteuzzi che ammette i propri limiti e la mancanza di competenza nella specifica materia del «critico» - è, almeno dal punto di vista di un non-esperto, proprio l'intreccio fra i grandi e i piccoli avvenimenti di quella storia, fra i protagonisti famosi nel bene e nel male e i piccoli protagonisti di quel destino. Ed è proprio per questo che la rende "necessaria" anche per un pubblico più giovane che non ha il peso della memoria».
Certo, anche in questo caso c'è il trattamento delle storie individuali e collettive, le quali tutte insieme si intersecano però con la Storia con la esse maiuscola, storia politica, economica e sociale di un popolo collettivamente inteso nella sua opposizione al regime militare. E dall'intreccio emerge anche la critica ai contenuti e, dunque, a quello specifico aspetto fotografico: «Il materiale fornito dall'Agenzia di fotografi Ima (creata a Santiago dai fotografi Claudio Perez e Rodrigo Gomez) e scovato in una infinità di archivi e da diverse fonti (con l'ovvio appoggio del Governo democratico cileno e dell'ambasciata del Cile in Italia) è di primissima qualità professionale ma soprattutto politica e umana. Quindi non solo "cronaca" ma "cultura"».
 
Una diversa scelta l'ha fatta invece Specchio, il settimanale del sabato de La Stampa, che ha pubblicato gli scatti di un gruppo di nove fotografi di eseprienza ed estrazione diversa, riuniti per l'occasione nella mostra «Confronting view» (Sguardi a confronto), ovvero punti di vista non coincidenti, fotogrammi inconsueti sul conflitto arabo-israeliano tra normalità e vita cruenta. Ma le foto, diciannove, pubblicate su un servizio di ben undici pagine (titolo: «E adesso la pace»), formano più che altro un percorso iconografico che poco ha a che vedere con il testo firmato da Maurizio Molinari, l'inviato a Washington del quotidiano torinese, uno dei migliori corrispondenti italiani sulla piazza americana. Una delle undici pagine è invece dedicata al Festival («Roma capitale dei fotografi») e descrive a parte i contenuti di FotoGrafia. In questo caso, dunque, Specchio  sceglie di documentare un articolo generale sul Medioriente e sull'abbattimento del regime di Saddam Hussein, all'indomani dell'attacco Usa all'Irak, con immagini diverse e inconsuete in un contesto simile o comunque tangenziale al problema generale. E questo modo di fare ci riporta immediatamente al tema iniziale, e cioè al rapporto paradossale che i giornali hanno con la fotografia.
Già, perché ci sono tanti modi diversi di utilizzare gli scatti all'interno delle pagine. E per lo più sono tutti modi «illustrativi». Un filo narrativo non sempre contestuale al testo. Ormai è una tendenza piuttosto accentuata, assai diversa da quella che poteva essere fondante ne L'Europeo di Arrigo Benedetti: foto come un qualcosa non da aggiungere al testo ma come sua parte integrante. Tanto che il settimanale benedettiano aveva i propri fotografi, regolarmente assunti, che mandava in giro a far reportage ad hoc (cfr. G. A. Stella «Questa è passione. Per il racconto» in L'Europeo «Gli scandalosi», n. 3, luglio 2002). Cioè un settimanale che aveva una idea del tutto diversa del fotografo (e della fotografia, che usualmente giganteggiava sulle pagine formato lenzuolo, elemento narrativo prìncipe, a sé stante, autosufficiente, oggetto in sé e per sé), e comunque mille miglia lontana dall'idea attuale: giornalista e fotografo erano considerati sullo stesso piano, l'uno e l'altro parte integrante dello stesso team e non come l'uno al seguito dell'altro. E la fotografia era tenuta in altissimo conto. Ma parliamo più o meno di mezzo secolo fa, il XX°, quello scorso, il Novecento, «breve» quanto terribile. Anni '50, '60.
Poi è arrivata la tv, che ha mutato il rapporto con l'immagine, perché è diventata «diretta», immediata. Lo spartiacque del rapporto giornalismo-fotografia è rappresentato dagli anni '70, in particolare il 1974 quando Livio Zanetti decide per L'Espresso un restyling radicale formalizzando il passaggio dal formato «lenzuolo» al magazine di formato ridotto. E tutto, in proporzione, viene di conseguenza rimpicciolito. La tv, del resto, ancora lungi dal diventare commerciale (ma Telelombardia, in quell'anno, aveva già cominciato a muovere i suoi primi passi, e Milano2 edificata dal costruttore Silvio Berlusconi era una realtà residenziale dotata di un circuito chiuso di trasmissione soltanto per i suoi diecimila abitanti che aveva già iniziato a funzionare alla grande) ed essere stata riformata con legge nella sua parte pubblica, era diventata un medium competitivo, che già aveva iniziato a far sentire il proprio peso e il fiato sul collo ai giornali (nel 1976 nasce la Repubblica, mezzo di comunicazione moderno, che la tv la introietta e la rispecchia a partire proprio dalla sua dimensione tabloid: ma inizialmente ha poche foto). A cavallo tra '70 e '80, poi, la televisione diventa soprattutto velocità di informare e di far vedere, e la foto come mezzo di comunicazione autosufficiente, che parla da sé e dice tutto in un fotogramma, di fatto muore. Genere da amatori, al più da collezionisti, roba da mercatini (la fotografia, scrive Susan Sontag in Davanti al dolore degli altri, è l’unica arte in cui la formazione professionale e lunghi anni di esperienza non garantiscono un vantaggio assoluto: il caso e la fortuna possono consentire anche a chi non è un espertofotografo di scattare un’immagine indimenticabile. E questo, secondo la Sontag, perché l’arte contemporanea predilige ciò che è spontaneo, rozzo, inesperto: il gusto del naif quale risultato delle avanguardie storiche, eccetera, eccetera…).

Anche i newsmagazines finiscono per diventare dei supermarket della notizia e in questo contesto anche l'immagine perde centralità, per assumere il ruolo di riempitivo, tappabuchi dentro i menabò. A parte la copertina, naturalmente, o la cover di un servizio interno, unico spazio nella cui cornice una foto può esser trattata in una dimensione ampia. Ovvero, il fotogiornalismo soprattutto come «roba bella da guardare», anche perché le dimensioni e i formati dei newsmagazines attuali non consentono di pubblicare le foto nella loro giusta dimensione, con il giusto spazio, la necessaria aria intorno. E così quel che è capitato al racconto è capitato anche alle foto: gli spazi si sono chiusi, ridotti. I fotografi non sono più dipendenti ma free lance, ovvero tutti «sul mercato» e con tutti i rischi personali e le incognite del caso. Un mercato altamente frammentato e all'interno del quale si possono trovare oggi immagini a iosa, di tutti i formati, di tutti i prezzi e di tutte le provenienze. I fotografi assunti, tuttavia, sarebbero oggi un costo fisso eccessivo per i giornali e i loro bilanci, tanto che tendono ridursi all'essenziale negli organici. «Ti assumo all'attualità ma ti occupi anche del sito internet», si sente raccontare in genere dai colleghi che ancora trovano spazio nei giornali. Tutti jolly (cfr. «Mi vengono i brividi...», colloquio con Grazia Neri in Prima Comunicazione, aprile 2002).

Oggi le immagini si rimpallano da una parte all'altra del mondo, tutte uguali. Quali differenze ci sono tra quelle del crollo delle Twin Towers a New York diffuse dalla tv e quelle pubblicate sulle prime pagine dei giornali e le cover dei newsmagazines? Non c'è confine. Le seconde potrebbero essere persino il risultato dei fermoimmagine dei filmati televisivi e nessuno se ne sarebbe accorto. «Nel settembre 2001 in uno spazio commerciale di Manhattan – scrive Marco Belpoliti su La Stampa del 30 agosto 2003 nel recensire il libro della Sontag – è stata organizzata una mostra dal titolo Here is New York. Vi sono esposte oltre mille immagini fotografiche scattate il giorno dell’attacco alle due torri gemelle; le hanno realizzate famosi professionisti e dilettanti sconosciuti. Le foto, assolutamente anonime e prive di didascalie, sono in vendita e, solo dopo averle acquistate, i compratori possono conoscere il nome del fotografo che le ha scattate: un pensionato che si è sporto dalla finestra di casa sua o un celebre fotoreporter accorso immediatamente sul luogo del disastro».
Il punto vero, però, è che nella «società delle immagini» - come viene definita - queste stesse si rivelano un puro e semplice contorno, sono di complemento, hanno un valore puramente simbolico, illustrativo in mezzo alle colonne di piombo, in molti casi sono riempitivo, tappabuco, quel che si dice puro infotaiment (informazione-intrattenimento, anche loro, come l'informazione tutta del resto, ormai). E lo si capisce da come vengono trattate spesso da grafici senza scrupoli che non hanno il benché minimo rispetto per chi le ha scattate: foto tagliate, rigirate, scontornate, sabbiate, ripetute, trattate e ritrattate. Spesso si illustrano articoli (anche di cronaca e di attualità stringente) con foto di repertorio che non c'entrano nulla con quel fatto specifico (le guerre, in particolare, ma anche i fatti di cronaca nera o giudiziaria) o persino con immagini tratte da film famosi (foto di scena utilizzate per lo più a contorno di articoli di costume, tendenza, stili di vita). Certo, non manca chi ritiene che questo modo di agire, e cioè che testo e foto non siano necessariamente sulla stessa lunghezza d'onda, non sia - alla fin fine - neppure un male, perché si tratta di sguardi diversi, non necessariamente coincidenti (il testo e la foto, s'intende). Ma se un tempo poteva anche capitare che si cambiasse la fotografia in funzione dell'articolo, mai capitava (e capita) diversamente: cioè che «il pezzo» muti, viri in funzione della fotografia. Come dire? Il testo è sacro, è l'immagine che si adatta (priorità del giornalismo).
E questo è rivelatore di un atteggiamento, che fa sì che i fotografi non abbiano nessun potere nei giornali e che il loro lavoro spesso sia in mano a persone non sempre sufficientemente competenti o sensibili alla materia, all'argomento, al lavoro fotografico e al rapporto con i fotografi, e che a quel settore sono approdate magari per altre vie, provenienti da altri incarichi e comparti del giornale che nulla avevano a che vedere con le immagini e il loro trattamento.
Tuttavia capita, altresì, che sempre più i settimanali (di attualità, di moda come D e quelli politici come L'espresso, ad esempio) scelgano dapprima i servizi fotografici per il loro Portfolio sulla base della bellezza o della forza delle immagini, per poi chiedere al giornalista di turno, alla «penna» o al giornalista dotato di memoria, di conoscenza di luoghi per esservi stato tempo addietro o anche recentemente ma non necessariamente nell'occasione specifica di quel servizio fotografico, di scrivere l'articolo a corredo. E quasi mai c'è attinenza tra l'uno e l'altro. Le immagini stanno prima del testo, ma con il testo non hanno alcuna relazione (e viceversa). E' un racconto a sé stante, che delle foto neppure tiene conto.
Che la frantumazione di questo comparto abbia dell'incredibile è testimoniato dal fatto che persino le grandi agenzie fotografiche, nazionali ed estere, sono oggi soprattutto dei grandi canali di distribuzione più che di produzione vera e propria. A parte alcune (poche), in genere le agenzie raccoglitrici che sono collettori e veicolo di immagini e che comprano dai free lance sguinzagliati per il mondo a proprio rischio e pericolo, assecondano le richieste del mercato ma non lo influenzano se non in quella minima parte che serve a soddisfarne le tendenze prevalenti.
Alla fin fine, la nostra non è vero affato che sia la «società delle immagini», bensì la società delle stesse immagini, sempre le solite, che vanno bene per tutti: viste, scelte e messe in pagina da un occhio - per così dire - unico, con lo stesso sguardo, la stessa sensibilità. E paradossalmente, le direttrici e i direttori di newsmagazines, mensili e quant'altro hanno - al contrario - una maniacale ossessione proprio per le immagini, per le foto. Le scelgono ad una ad una (anche quando sono in vacanza, magari facendosi mandare via e-mail le pagine del giornale). Ma questo non ha altresì aumentato la credibilità (e la soddisfazione) dei fotografi, e mutato la loro condizione.