Rappresentare la morte?

Vittima:
s. f. animale o essere umano offerto in sacrificio a una divinità: vittima propiziatoria, espiatoria; condurre la vittima all'altare

Non è semplice parlare di questo argomento avendo esso troppe implicazioni pratiche, emotive, teoriche e teoretiche. Vogliate pertanto valutare i miei ragionamenti come contributo personale al dibattito aperto, nel sito di Fotografia e Informazione, da Marco Capovilla.
Ho fatto per alcuni anni fotogiornalismo di cronaca, attraversando il "primo mondo": dal debutto in società della diciottenne nobile, allo sciopero di protesta, all'incidente stradale mortale, tra alcune conferenze e presentazioni. Tutto nello stesso giorno.
Capita spesso di valutare l'utilità del proprio lavoro affrontando diverse situazioni limite. Quello che può essere l'impatto di un treno su di un suicida è difficile da descrivere, quattro persone dentro un'auto grande un metro cubo non lasciano molto da fotografare.
Impongono di abbassare la macchina e ragionare sulla necessità di rappresentare ed esibire la morte.
Ho spesso litigato, fino al turpiloquio, con giornalisti che ritenevano importante la “foto del morto”. Io sul posto posso pensare di produrre immagini per la documentazione della "cronaca", anche giudiziaria, posso anche pensare la mia "missione di giornalista" mi imponga di testimoniare quanto accaduto, con tutte le valenze legali che tale testimonianza può avere. Ma da qui a pubblicare la foto di una persona morta, quando un lenzuolo basta a significarla, ne passa.
Io personalmente ritengo il soggetto abbia diritto, sempre, alla sua dignità. Specialmente nella morte. Considero la fotocamera una barriera troppo labile per potermi nascondere e non riconoscere nel mio soggetto un altro essere umano, l' altro "me stesso". Per questo forse ritengo non si debba in alcun modo pubblicare le immagini di cadaveri.
Semplicemente perché nessuno può permettersi di “consumare” la dignità della morte, della memoria, a fini personali: per portfolio, politica, economia, arte, giornalismo o quant'altro. Ci sono dei valori senza i quali l'uomo non serve a nulla: la dignità è uno di questi.
In questo caso l'evento non si limita a produrre come vittima il morto, la vittima è anche il giornalista che giustifica la sua senescenza emotiva, egoica, con una dubbia professionalità, appropiandosi per abitudine consumistica della realtà che vede in foto. Disconoscendone, dalla "distante" scrivania di lavoro, dal box, il peso ed il costo emotivo.
Chi crede di poter vedere attraverso gli occhi dei fotografi si ricordi che certe immagini si fanno con lo stomaco. Costano molto più di quanto si possa immaginare e non immedesimarsi è difficile.
Altra considerazione possiamo pensare di fare quando il soggetto rappresentato è la morte di massa, eventi eccezionali, piaghe umane, fosse comuni o altro. La denuncia impone l'esposizione.
George Rodger lamentava, in un documentario BBC, di essersi trovato tra i primi fotografi in un campo di sterminio nazista:- “to put bodies in beautifull composition”; "..there was a ghostly horror and I was thinking at a beautiful composition..." si è trovato a mettere l'orrore in belle composizioni. Una considerazione preziosa fatta nel momento storico in cui l'uomo ha dovuto affrontare la “meccanizzazione” della morte. L'applicazione dell'approccio industriale allo sterminio di massa. Questa considerazione di Rodger permette la lettura della "surrealtà difensiva" che certe situazioni possono produrre. Aggrapparsi alla propria “missione giornalistica" o a qualsiasi altro simulacro di verità credo sia, in certe situazioni, necessario. Lui se n'è accorto.
Altre immagini impressionanti, che ritengo di valore assoluto, sono quelle che molti hanno avuto modo di produrre in Rwanda '94, nella fattispecie sono molto forti quelle di Gilles Peress. Anche in queste immagini vediamo la "massa" e la morte come fenomeno industrializzato. Ruspe applicate alla sepoltura.
Nelle immagini dello tsunami, pubblicate di recente, quella dei corpi resi dal mare è stata dirompente.
Non è il singolo individuo a subire il "fato avverso assoluto" ma "l'uomo" in quanto tale, la specie. "L'essere umano" di fronte al distruttivo delirio meccanico della tirannia (economica o politica) o l'apocalittica potenza devastante della natura.
La "romantica foto" della morte del miliziano spagnolo, scattata da Capa-Friedmann, è roba lontana. Passiamo dall'espressione di un potere quasi alchemico della macchina fotografica, che crediamo riesca a congelare l'istante della morte del singolo, alla fredda testimonianza documentale di eventi che, come nel caso del Rwanda o delle fosse comuni di Srebrenica e Vukovar, possono essere utili solo come prove per il Tribunale Penale Internazionale o libri. (Il mercato è diverso da quello delle riviste: acquistando certi libri sappiamo che non sono da lasciare a disposizione di bambini.)
La prima realtà è legata ad un periodo storico-filosofico che riporta la necessità di individuazione del sè, partendo dal "ergo sum" in avanti: le sue percezioni, intelligenza, sensibilità, capacità, emozioni, etc.etc.
La seconda realtà si trova, costretta dalla rete, dal network, dalla globalizzazione, a cambiare marcia: ricordando quanto si possa essere accomunati nella morte di fronte alle enormi sciagure che la nostra epoca può produrre (memento). Siano effetti della cultura, dell'economia o della natura ci ritroviamo, nostro malgrado, accomunati dal sistema mediatico (la realtà è quello che percepiamo, una scelta) ad affrontare nella nostra emotività privata realtà "altre da noi", alienanti, perdute in spazi e tempi remoti della nostra esistenza. Provocando immedesimazione per transposizione (trasfert) avendo prevalentemente, il sistema italiano, preferito il giornalismo evocativo a quello informativo. L'impatto può essere devastante.
La "morte estetica" e "l'odore della morte" sono due realtà diverse. Fotografie di sensi differenti.
Abbiamo poi una terza realtà (o mondo): l'uso intimidatorio e strumentale della morte altrui. Usare la morte per lanciare messaggi mediatici, a significare:- "quelli sono cattivi, siamo in pericolo" - "questo è pericoloso ma con la lavatrice anticarro ti salvi"- "fermiamoci a pensare", a fine politico economico o quant'altro. Unito alla vecchia e mai dimenticata tendenza a shoccare per vendere.
Se nel giornalismo pretendiamo il transfert con chi subisce gli eventi, per vendere più copie o per ri-affermare la caducità della vita (stan come d'autunno), sfruttando l'importanza di una professione costata parecchie vite, cortesemente cerchiamo di valutare l'opportunità di non pubblicare i morti NUDI. Se devo immedesimarmi mi offendo. Il pudore rimane ancora necessario e basta una striscia nera di censura.
In questa mia riflessione ho descritto:
- Il fotografo che scatta la foto del morto. Vittima del portfolio, del direttore, di una vana credenza la sua sia una missione. I morti muoiono, non ci vuole tanto a capirlo. Basta un lenzuolo.
- Il redattore che pubblica "allegramente" (senza sentirne l'odore) la foto del morto. Vittima del "suo giornalismo", del suo direttore, vittima della credenza il "popolo bue" (che esiste solo nelle redazioni dei giornali) sia da svegliare con una scossa di violenza visiva.
- Il direttore che autorizza la pubblicazione. Vittima del tornaconto economico (più copie vendute non perchè il popolo abbia bisogno di vedere la morte ma perchè il tam-tam della polemica aumenta le vendite) o del tornaconto politico, l'opinione pubblica si strumentalizza urlando, usando la retorica e lo shock; non la si conquista dialogando.
- La vittima che muore. E non aveva altro di meglio da fare che morire per assurgere ad una ribalta qualsiasi, dando voce ai succitati attori di questo triste teatrino.
Chi è la vittima di cosa? vittima sacrificata a quale divinità? sull'altare del giornalismo o dell'intrattenimento?

Mi scuso per la confusione, la complessità e la brevità; è un argomento enorme.

Fabiano Avancini