Arti visive e nuovi linguaggi

Intervento alconvegno Arti visive e nuovi linguaggi: la qualità del rapporto Fotografia e Informazione organizzato dall'inserto"Domenica" de Il Sole 24 Ore svoltosia Milano il 30/09/01

Domenico Stinellis è fotografo e photoeditor della sede romana dell'Associated Press

SOMMARIO

L’introduzione delle nuove tecnologie digitali impone il ripensamento delle metodiche e della deontologia professionale del fotogiornalista. Pur rimanendo validi, i principi generali che regolavano il mondo del fotogiornalismo “analogico” devono essere adeguati alle nuove realta’ professionali.
Antiche e nuove questioni animano il dibattito che si e’ sviluppato intorno alle nuove tecnologie. Il loro rapporto con la creativita’ e con la correttezza dell’informazione costituisce il fulcro di questo dibattito.


In qualsiasi era della storia dell'umanita' la comparsa di nuove tecniche ha imposto la necessita' di elaborare un adeguato "sistema di pensiero". Nei nostri giorni, ad esempio, le scoperte scientifiche nell'ambito della genetica, hanno generato un acceso dibattito sulle implicazioni morali e etiche che il loro potenziale utilizzo comporta. La "scoperta" della polvere da sparo, impose un nuovo modo di pensare la guerra.
Nel suo ambito la nascita della fotografia ebbe un ruolo altrettanto decisivo nel contribuire a mutare la "visione del mondo" dei contemporanei. La sua naturale applicazione fu quella della riproduzione delle opere d'arte, della ritrattistica e della fotografia di paesaggio.
Si disse che la pittura era morta. E in un certo senso un certo tipo di pittura lo fu veramente. Dipingere un mondo che era gia' stato fotografato impose all'artista la necessita' di differenziarsi e di recuperare quell'autonomia di linguaggio che gli era sempre stata propria. L'espressionismo e l'astrattismo, in concomitanza con la nascita di una filosofia e una psicologia delle forme, si dedicarono all'esplorazione dei meccanismi interni della creativita'. Anche in ambito letterario assistiamo alla nascita di generi che si occupano non piu' dei "fatti del mondo esterno", gia' divenuti appannaggio dei giornali che iniziano ad essere anche illustrati, ma dei fatti della vita interiore. L'artista non crea piu' il mondo dunque, ma ne esplora le verita' interiori.
Ai suoi albori la fotografia scelse il suo oggetto essendo condizionata anche da limiti tecnici: ingombro delle macchine fotografiche, lunghezza dei tempi di posa, e cosi' via.
Quando queste difficolta' furono superate essa scopri' il suo valore come strumento di documentazione. Questo nuovo ruolo diede il via ad un dibattito sulla sua oggettivita'. Un dibattito che, anche rinverdito dalla recente introduzione delle tecnologie digitali, dura fino ai nostri giorni .

Il presupposto teorico intorno al quale questo dibattito si snoda e' quello del concetto di "verita'". Si ritiene che la fotografia sia una riproduzione meccanica della realta'. L'ingenuita' di un tale presupposto e' abbastanza evidente. Essa riguarda da un lato l'uso preconcetto del criterio di "verita'" e dall'altro la scarsa o confusa conoscenza dei processi tecnici e semantici attinenti al mezzo fotografico. Secoli di speculazione filosofica non hanno ancora prodotto una definizione conclusiva di verita'. In questo campo le teorie scientifiche piu' recenti si allontanano talmente dal senso comune che prima di poter essere utilizzate in ambiti diversi da quelli specialistici che le hanno partorite, necessiterebbero di una notevole opera di "traduzione".

Per una certa filosofia della scienza e' "vero" cio' che e' verificabile anche secondo requisiti di "riproducibilita'". Popper, al contrario, ritiene che sia vero solo cio' che e' anche falsificabile. Si tratta di un terreno molto tecnico dove non possiamo avventurarci. Mi sembra pero' interessante il tentativo di ricondurre i criteri di intelligibilita' del fatto a un insieme di riferimento fondato sul "senso comune". Esso non risponde ovviamente ai rigidi requisiti dell'indagine scientifica, ma ogni volta che il fine della conoscienza sara' pratico e non teoretico, allora questo senso comune, fondato sull'esperienza, potra' fornire le linee guida di una teoria dell'azione.
In questo senso Bertrand Russel riteneva che l'aspirazione dell'essere umano dovrebbe essere l'obiettivita' etica. Intendendo con cio' un sistema che produca il massimo di valore etico intrinseco. L'obiettivita', secondo Russel, non e' altro che una soggettivita' "allargata". Essa consiste nell'ampliare il gruppo di riferimento fino a comprendervi possibilmente tutti gli esseri umani. Un giudizio obiettivo quindi non ha il fine di rappresentare meccanicamente il suo oggetto, ma quello di rappresentare il numero maggiore possibile di giudizi soggettivi su quell'oggetto. Questa idea permea la deontologia giornalistica. Quando si parla di "completezza dell'informazione" si intende proprio questo.
Come e' possibile allora stabilire un criterio di verita' a cui la fotografia, particolarmente quella giornalistica, possa adeguarsi? O in altri termini, quali sono i limiti, tecnici e semantici, oltre i quali il fotogiornalista non deve avventurarsi?
Bisogna subito chiarire una questione lessicale in apparenza elementare, ma tradizionalmente piena di insidie.
Non ogni fotografia che appare su un giornale, e', per cio' stesso una fotografia giornalistica. Non mi riferisco evidentemente all'uso che della fotografia si fa nelle pubblicita' o per fini grafici. Ma parlo di tutte quelle numerose immagini che compaiono nel corpo di articoli e servizi realizzate con lo scopo di "illustrare" la storia. Esse, quasi indistintamente, non rappresentano un fatto, ma l'idea di un fatto. Alcune sono realizzate in studio, altre per la strada, ma tutte hanno la comune caratteristica di non essere il semplice "fenomeno" di un evento, ma di costituirlo esse stesse. Un esempio . Se la notizia del giorno e' costituita dalla svalutazione della lira rispetto al dollaro e si vuole coordinare l'articolo con una fotografia, si chiedera' al fotografo di produrre un'immagine che riassuma l'argomento del pezzo. Abbiamo scelto questo esempio proprio perche' la svalutazione non e' un evento tangibile qui e ora. A meno di non voler predisporre lo spazio adeguato sul giornale per un reportage di ampio respiro sugli effetti della svalutazione, si dovra' ricorrere a un'immagine sintetica di un evento effettivamente intangibile nella contingenza. Di solito si vedono pubblicate foto di mani che maneggiano banconote, improbabili bilance che pesano mazzette delle stesse banconote, e cosi' via dicendo. A causa dell'avvento delle borse telematiche sono quasi scomparse le fotografie degli operatori di borsa che si sbracciano in gesti incomprensibili ai profani. Ora, tutte queste fotografie, anche e soprattutto le piu' fantasiose, rientrano nell'ambito di quella che nel mondo anglosassone e' definita fotografia d'illustrazione. Il presupposto di obiettivita' e' dichiaratamente abbandonato a favore di una diversa sintassi della creativita'. Va detto che non esiste una gerarchia tra questi diversi approcci della fotografia d'informazione. Anche se, per esempio negli Stati Uniti, i fotografi illustratori sono mediamente pagati piu' dei loro colleghi giornalisti.
Fotografia giornalistica quindi come rappresentazione di un evento qui e ora. Possiamo finalmente porci quella che potrebbe essere la domanda fondamentale per un'etica del fotogiornalismo: cosa deve essere una fotografia giornalistica per potersi definire tale? Non parliamo delle sue caratteristiche artistiche, ma dei suoi elementi costitutivi dal punto di vista, scusate il termine un po' roboante, ontologico.
Anzitutto la fotografia giornalistica si distingue da ogni altro genere fotografico rispetto alla finalita'. Il fine del fotogiornalista dovrebbe essere quello di informare. Dove per informare si intende il rendere disponibile al lettore il maggior numero di informazioni riguardanti un evento che si verifica qui e ora. Il suo fine non sara' mai quello di stupire, promuovere un'idea, un prodotto commerciale, ma rendere chi guarda una fotografia testimone di un fatto verificatosi li e allora.

Nell'ambito della fotografia d'informazione poi, si e' detto, che il fotogiornalismo si distingue per il suo carattere eventuale e contingente. Il fatto si verifica in un momento preciso del fluire spazio-temporale. Questo fluire, non credo di svelare un mistero, non e' reversibile ne' personalizzabile. La presenza del fotogiornalista quindi non dovrebbe influire sul corso degli eventi e tantomeno provocarlo. Egli dovrebbe essere una figura "astorica". Puo' accadere, al contrario, che sia la fotografia giornalistica come prodotto della vita dell'uomo, a influire sul corso della vita dell'uomo. Nel 1905 le fotografie dei giocatori sfigurati al termine di una partita di football tra l'universita' di Pennsylvania e quella di Swarthmore, indussero il presidente Roosevelt a emettere un ultimatum. Egli minaccio' di abolire per legge il gioco del football se si fossero ripetuti episodi analoghi. Cio' determino' un cambiamento radicale nelle regole di quello sport. Inoltre tutti sappiamo quale fu il ruolo delle immagini della guerra del Vietnam sull'opinione pubblica americana e mondiale.
Per quello che riguarda invece l'aspetto, diciamo cosi' "creativo" del suo lavoro il fotogiornalista deve servirsi di un mezzo, tecnico o espressivo, di cui siano note le potenzialità. Anche qui un esempio concreto servira’ a chiarire meglio questo concetto. Un'immagine che tradizionalmente viene pubblicata dei fenomeni di eclissi solare e' quella realizzata con la tecnica delle esposizioni multiple. Essa consiste nell'esporre ripetutamente lo stesso fotogramma a intervalli di tempo programmati. Il risultato e' un'immagine in cui si vede il disco solare nelle diverse fasi dell'eclissi. I piu' bravi riescono a far capitare il sole completamente oscurato al centro del fotogramma e le fasi ascendenti e calanti dell'eclissi, equidistanti alla sua sinistra e alla sua destra disposte lungo una traiettoria ellittica.
Verrebbe da chiedersi: in questo caso si tratta di illustrazione o fotogiornalismo? Non tutti sono d'accordo ma, in base a quanto abbiamo detto fin qui, ritengo che siano presenti i requisiti dell'immagine fotogiornalistica. Infatti il requisito dell'informazione e' soddisfatto. I cittadini dei paesi dai quali l'eclissi non e' visibile possono essere informati, e anche tutti gli altri che magari non dispongono degli strumenti adeguati per vederla o che semplicemente non erano nelle condizioni per farlo, usufruiscono dello stesso servizio. Inoltre il fotografo non puo' certo "influire" sul corso degli eventi. Ma soprattutto, il fatto che viene rappresentato ha un carattere eventuale.
Il problema sorge riguardo alla contingenza, vale a dire rispetto al flusso spazio-temporale. E' indubbio che i fatti la cui rappresentazione costituisce l'immagine non siano simultanei. Si verifica quindi quella personalizzazione del fluire spazio-temporale di cui si parlava prima. Istanti successivi del flusso sono rappresentati come simultanei. Ritengo che, qualora il valore informativo della rappresentazione sia assoluto, vale a dire quando esso non possa ragionevolmente produrre contro-informazione, ci troviamo ancora in presenza di un'immagine giornalistica. Naturalmente a patto che sia nota la tecnica, e quindi le sue potenzialita', con cui l'immagine e' stata realizzata.
Anni fa, durante una violenta eruzione dell'Etna, mi capito' di vedere una fotografia notturna della colata lavica che scendeva dal cratere del vulcano e che, per effetto dello schiacciamento prospettico del teleobiettivo, sembrava riversarsi minacciosa sulla silhouette illuminata della cattedrale di Zafferana Etnea. Era un'immagine molto suggestiva che si guadagno' la prima pagina di alcuni giornali. Mi trovavo sul luogo e per curiosita' mi recai a verificare da quale angolazione la fotografia fosse stata scattata. Mi resi presto conto che le caratteristiche del luogo non avrebbero mai consentito la ripresa di un' immagine del genere. Quel fotografo aveva usato una doppia esposizione per mettere vicino la lava e la cattedrale che nella realta' si trovavano a chilometri di distanza. Poiche' i giornali che avevano pubblicato la fotografia non avevano avvertito i lettori che si trattava di un fotomontaggio, l'impressione che se ne ricavo' fu quella che la lava stesse per sommergere la cittadina etnea. In quel caso, l'ignoranza del mezzo espressivo produsse una contro-informazione.
Questo esempio introduce un' altra caratteristica fondamentale della fotografia giornalistica. La didascalia. E' evidente che se quel fotomontaggio fosse stato pubblicato con una didascalia adeguata, nessun equivoco sarebbe stato possibile.
Per didascalia si intende un breve testo, di solito non piu' di due o tre periodi, che contenga tutte quelle informazioni che non sono direttamente deducibili dall'immagine, ma che la riguardano. Per semplicita' possiamo anche far riferimento ai cinque requisiti della notizia secondo la scuola anglosassone. Le cinque "W". Vale a dire Chi, Cosa, Dove, Quando e Perche'. Nella didascalia deve essere anche specificata la tecnica con cui l'immagine e' stata ripresa. Spesso cio' sarebbe superfluo, siamo d'accordo. Ad esempio le agenzie internazionali specificano in un campo apposito della didascalia elettronica se l'immagine sia stata scattata con una fotocamera digitale. Questo probabilmente avverra' fino a quando le camere digitali non avranno sostituito completamente quelle tradizionali a pellicola. Ovvero quando le potenzialita' del mezzo digitale saranno divenute, grazie alla sua diffusione di massa, familiari al lettore.


Riassumendo, abbiamo detto che una fotografia, per potersi considerare giornalistica deve essere: informativa, riferita ad un evento contingente, realizzata con tecniche note, e corredata di una didascalia.
Questo paradigma si riferisce a un processo che inizia con "l'ideazione" fotografica, ossia la scelta della focale, dell'inquadratura, del tipo di pellicola e del tipo di evento. Ma che dopo di essa prosegue in una fase successiva che, mutuando il termine dal mondo televisivo, potremmo definire di post-produzione. Ancora qualche anno fa questa fase era costituita essenzialmente dai procedimenti di sviluppo e stampa e potremmo definirla "fase umida". Fino allo sviluppo della pellicola infatti non si era in grado di vedere l'immagine prodotta (nei casi piu' sfortunati neanche dopo), si parla infatti di "immagine latente" ( o latitante, a seconda dei casi). Comunque sia, per rendere disponibile il prodotto dell'ideazione occorreva un'ulteriore "manipolazione" chimico-fisica.
Il progresso tecnologico ha da qualche anno reso disponibili su larga scala procedimenti di campionatura numerica abbastanza evoluti e in grado di convertire nel formato digitale immagini analogiche, ossia a tono continuo. Non possiamo qui entrare nel dettaglio di come questa conversione avvenga, ma diamo per scontato, per semplicita', che essa riproduca fedelmente l'originale analogico. Inizialmente questa conversione interveniva a meta' di quella che abbiamo definito come "fase umida". Vale a dire dopo lo sviluppo della pellicola. Fu cosi' eliminata la necessita' di stampare su supporto cartaceo le fotografie. In realta' questa necessita' era relativa solo all'esigenza della distribuzione a diverse testate. Quei fotografi freelance che avevano un rapporto diretto o esclusivo con un giornale o una rivista consegnavano in tipografia l'originale da cui veniva eseguito direttamente il controtipo per la stampa. In molti casi pero', soprattutto per le immagini in bianco e nero e per quelle riprese con pellicola negativa a colori, le tipografie preferivano ricevere una stampa cartacea. Anche le grandi agenzie internazionali stampavano centinaia di copie della stessa immagine (o di duplicati della stessa diapositiva) che venivano poi distribuite localmente.
Poiche' anche le tipografie adottarono presto tecnologie elettronico-digitali, fu naturale per i fotografi e le agenzie adeguarsi al nuovo mezzo. La pellicola veniva scansita e trasformata in dati che potevano essere gestiti da un personal computer. La digitalizzazione eliminando il procedimento di stampa, si assumeva l'enorme responsabilita' di restituire fedelmente tutto cio' che il fotografo aveva inteso mettere nello scatto. Nacquero cosi' dei software che permettevano di assolvere a questo compito, offrendo la possibilita' di "imitare" le tecniche utilizzate da uno stampatore esperto. Successivamente le possibilita' offerte da quelle tecniche furono ampiamente superate dall'evoluzione estremamente sofisticata di questi software. Oggi programmi come Photoshop, solo per citare il piu' noto, consentono interventi sull'immagine che in una camera oscura tradizionale non sarebbero nemmeno pensabili.
Tutto cio' dilata una problematica, gia' presente in epoca analogica, che e' quella del pericolo di falsificazione del contenuto di una fotografia. La dilata verso i limiti costituiti dai limiti del mezzo digitale che coincidono esattamente con i limiti della nostra fantasia. Con le tecnologie analogiche e' possibile realizzare fotomontaggi, anche abbastanza credibili. Ricordo che solo con l'impiego di tecniche di microscopia elettronica, negli anni 80, si scopri' un clamoroso falso. Si trattava di una fotografia in bianco e nero pubblicata negli anni sessanta dalla rifista Life e che ritraeva il presunto assassino del presidente Kennedy nel giardino della sua casa con in braccio un fucile.
Si scopri' che la struttura della grana presentava delle discrepanze e che l'immagine era frutto di un accuratissimo collage.
Poi esiste un bellissimo libro di cui purtroppo non ricordo il titolo che raccoglie un'antologia di immagini di regime falsificate per scopi propagandistici.
Il problema della falsificazione quindi e' sempre esistito. La novita' consiste oggi nel fatto che, con la tecnologia digitale, essa e' non solo facilitata nelle sue metodiche, ma resa estremamente piu' rapida nella sua esecuzione. Vale a dire che anche immagini destinate alla stampa quotidiana o addirittura al circuito internet sono falsificabili in misura pressoche' perfetta. Uno dei criteri con cui un tempo si poteva lecitamente sospettare un falso era quello della produzione dell'originale in tempi rapidi. Oggi l'efficacia di questo criterio e' notevolmente ridimensionata. Soprattutto dopo che anche l'altro momento della "fase umida" e' stato eliminato con l'uscita delle fotocamere digitali. Le moderne fotocamere digitali scrivono su unita' di memoria allo stato solido (hard disks, cd, flash cards, ecc..) senza passare per la fase analogica, quindi mentre risolvono una serie di problematiche relative alla conversione analogico digitale, ne creano di nuove che riguardano ad esempio la difficolta' ( anche legale) di individuare in maniera certa l'originale fotografico. Il tentativo di creare dei marchi elettronici all'interno dei file costituisce solo un palliativo poiche' ogni serratura, convenzionale o elettronica, puo' essere scardinata. E' tutto sommato solo una questione di rapporto costo-benefici.
Dopo aver dipinto un quadro cosi' apocalittico sara' bene dire che, per quanto bene una falsificazione sia eseguita, essa, alla lunga sara' sempre smascherabile. Per giunta oggi gli eventi sono cosi' affollati di fotografi e televisioni che una falsificazione, per ottenere il suo fine, dovrebbe essere operata su scala cosi' generalizzata da presupporre un complotto internazionale di dimensioni tali da renderlo realisticamente non realizzabile.
Abbiamo fin qui parlato di falsificazione senza tuttavia chiarire completamente di cosa si tratti. Riferendoci a quanto stabilito prima a proposito della ideazione fotografica, potremmo parafrasare dicendo che c'e' falsificazione quando, attraverso espedienti tecnici o semantici, viene prodotta contro-informazione. Vale a dire quando l'informazione risultante e' contraria o diversa dalla realta' come percepita da un essere umano "normale" e spettatore di un evento. Poiche' abbiamo anche visto che le nuove tecnologie digitali ci impongono nuovi strumenti di post-produzione, si trattera' di vedere in che modo delimitare l'area legittima di intervento di questi nuovi strumenti. Si profila quindi la necessita' di una deontologia relativa al trattamento elettronico dell'immagine. Si tratta di problematiche abbastanza nuove e fino a ora si e' proceduto piuttosto empiricamente. Ad esempio regolamentando il mezzo elettronico con gli stessi dettami etici di quello analogico. A questo riguardo la linea guida seguita da molte agenzie giornalistiche e' quella di non intervenire elettronicamente in modo da produrre risultati diversi da quelli ottenibili in una camera oscura convenzionale. Ma anche una simile condotta ci lascia in balia di criteri soggettivi di valutazione. Abbiamo detto che e' possibile falsificare un'immagine anche in una camera oscura tradizionale. Qual'e' allora il limite di intervento oltre il quale si deve parlare di falsificazione?
Esitono sostanzialmente due scuole di pensiero. La prima, che potremmo definire "integralista", sostiene che qualsiasi intervento elettronico debba soddisfare due requisiti. Il primo e' quello che la struttura del pixel non deve essere modificata, e tantomeno deve esserlo la relazione che esiste tra di loro. Unica eccezione ammessa e' quella che riguarda la loro luminosita' (e conseguentemente anche il loro colore).
L'altra scuola di pensiero, che potremmo definire "moderata" sostiene che non e' tanto importante la modalita' dell'intervento, quanto il suo risultato. Vale a dire che esso non deve aggiungere o togliere all'immagine elementi tali che il suo valore di informazione ne risulti modificato.
Entrambi gli approcci sostengono dei criteri del tutto validi. Il primo in un ambito rigorosamente tecnico si preoccupa di eliminare il problema all'origine e lo fa definendo un limite oggettivo all'operativita' del mezzo. L'altro, che trascura l'aspetto tecnico, pone il limite nel rigore semantico del risultato. Il primo e' piu sicuro, ma limita ovviamente la capacita' espressiva del mezzo. Il secondo presta il fianco a una certa confusione tra giornalismo e illustrazione a cui si accennava prima, ma essendo piu' flessibile, puo' essere riferito a diversi media anche quelli soggetti a una rapida evoluzione tecnologica.
Allo stesso modo entrambi gli approcci si trovano a dover risolvere l'imbarazzo causato da alcuni aspetti pratici. Ad esempio, come comportarsi con quei pixel lasciati inutilizzati, all'interno dell'immagine, da polvere presente sull'originale durante la scansione? Oppure, quando l'originale dell'immagine non e' immediatamente disponibile, soprattutto dopo diversi "passaggi di mano", come verificare la correttezza semantica di un intervento di correzione del contrasto o del colore?
Avrete notato che stiamo volutamente trascurando quei casi in cui la falsificazione e' deliberatamente rivolta a "ingannare" il lettore. La nostra analisi e' rivolta esclusivamente nel senso della metodica professionale.
In una grande agenzia internazionale come l'AP o la Reuter o l'AFP esiste l'esigenza di dare delle indicazioni guida ai propri redattori e fotografi tali che si possa prescindere in larga misura dalle loro differenze culturali, di sensibilita' personale e geografiche. Il criterio di massima a cui i fotografi e redattori di AP sono invitati a attenersi e' quello che l'immagine digitale grezza deve subire la minor quantita' possibile di intervento utile a renderla qualitativamente idonea alla stampa tipografica. Il concetto di qualita' idonea alla stampa si fonda su valori sufficientemente oggettivi determinati dalla densitometria e c'e' poco da aggiungere. Sulla natura dell'intervento invece bisogna dire che esso non deve mai modificare la posizione dei pixel dell'immagine(spostare oggetti), ma puo' clonare pixel adiacenti per corregere imperfezioni della scansione (nel caso di originale analogico) o della ripresa (polvere o sporcizia sul sensore della camera digitale). Cancellazioni o aggiunte di qualsiasi tipo sono escluse tassativamente. La correzione tonale e cromatica deve essere rigorosamente e unicamente finalizzata a migliorare la leggibilita' dell'immagine. Andrebbero evitate correzioni eccessive dell'equilibrio tonale e cromatico originario e tendenti a enfatizzare alcuni elementi dell'immagine a scapito di altri, e tanto meno, volte a enfatizzare le intenzioni del fotografo. D'altra parte questa e' una regola che, anche nel giornalismo scritto, e' ampiamente accettata. Un linguaggio eccessivamente enfatico e' spesso ritenuto sinonimo di cattivo giornalismo.

Anche per le correzioni tonali e cromatiche di immagini digitali il limite di riferimento ci viene dal confronto con il mezzo analogico. Potremmo paragonare l'intervento che i programmi di fotoritocco ci permettono di fare con quello che in ripresa si puo' ottenere con i filtri posti di fronte all'obiettivo della fotocamera. In linea di massima le tecniche analogiche che si utilizzano in fase di ripresa per migliorare o valorizzare una fotografia sono tollerate meglio di quelle utilizzabili in una camera oscura elettronica. Ritengo che cio' sia dovuto in massima parte a due fattori. Innanzitutto alla maggiore familiarita' che tutti hanno con la tecnica analogica i cui risultati sono riconoscibili e piu' prevedibili. Cio' mette il lettore al riparo da "brutte sorprese". Inoltre al livello del controllo svolto nelle redazioni, limitare la manipolazione delle immagini al minimo indispensabile, come si e' detto, garantisce una maggiore "uniformita' del prodotto", oltre che una maggiore velocita'.
Potremmo andare avanti citando esempi e passando in rassegna tutti gli strumenti che la tecnologia digitale ci offre per intervenire in maniera molto accurata nel trattamento delle immagini. Tale disanima confermerebbe sicuramente un fatto: le possibilita' di falsificare una fotografia sono oggi come non mai, praticamente illimitate. Scoprire tale falsificazione diviene sempre piu' difficile anche se non del tutto impossibile. Spesso l'unica garanzia di cui disponiamo e' costituita dall'affidabilita' della fonte. Non sono concetti nuovi. D'altro canto il criterio di attendibilita' della fonte e' ampiamente accettato nel giornalismo scritto. Alla fotografia pero', proprio per il suo carattere di "evidenza", si e' sempre chiesto di piu'. Alla fotografia si e' sempre chiesto non di essere attendibile, ma di essere inequivocabilmente "certa". La vera novita' quindi che per il fotogiornalismo si delinea all'orizzonte del suo futuro digitale e' quella di un ritorno a quei valori che proprio il progresso tecnologico sembrava precludergli. Valori personali, basati su una solida professionalita'. La diffusione dell'elettronica in fotografia negli anni 70/80, sembrava aver creato milioni di Cartier-Bresson. Chiunque potesse acquistare una fotocamera era anche in grado, grazie a una serie di pressoche' totali automatismi, di scattare immagini tecnicamente perfette, ma senza contenuto. Con i computer si pote' aggiungere dopo lo scatto anche il contenuto mancante. Ma proprio nel momento in cui tutto sembra confondersi nel fantasmagorico mercato delle immagini eclatanti, dei finti scoop e delle furberie di bassa lega, nasce l'esigenza di una deontologia nuova. Una deontologia in grado di indirizzare e valorizzare le nuove tecnologie. Una deontologia che tenga conto, volendo parafrasare Negroponte, delle differenze tra il "mondo di atomi" e quello di bit, e che ne comprenda l'interazione. Per fare cio' essa dovra' attingere a valori di cui dispone ma il cui significato sembra ignorare. Nel nuovo scenario digitale questa ignoranza puo' causare dei seri danni all'immagine del fotogiornalismo. Dovra' essere una deontologia in grado di compensare la sperequazione tra il costo (in termini economici, di impegno e di fatica personale, di formazione professionale) dell'informazione obiettiva e quello della contro-informazione. Naturalmente la definizione di una figura professionale non puo' prescindere dalle problematiche legate alla sua formazione e avviamento al mondo del lavoro. Sono tematiche importanti che pero' esulano dall'argomento di questa riflessione che vorrei concludere ricordando un’affermazione di Henri Bergson. “Cento foto di Parigi non sono Parigi” sosteneva il filosofo francese. In base a quanto si e’ detto fin qui, credo che potremmo replicare che per quanto cio’ possa essere in assoluto vero, non dovra’ mai esserlo a cagione dell’uso improprio che della fotografia giornalistica si potrebbe fare.