Guerra. Cosa ricordiamo?

  • fonte: Catalogo mostra Ombre di Guerra. Foto di Tim Hetherington

Qual è la nostra memoria della guerra? Cosa ricordiamo dei conflitti del passato più o meno recente? A quali modelli culturali e visivi facciamo riferimento quando vediamo una fotografia di guerra?

La mostra Ombre di Guerra, voluta da Science for Peace, l'organizzazione umanitaria guidata da Umberto Veronesi, curata da Alessandra Mauro e Denis Curti, offre lo spunto per una riflessione sulle fotografie che hanno fissato l'idea di guerra nella storia e documentato e raccontato i conflitti del nostro recente passato o del nostro presente. Dalla guerra di Spagna al conflitto in Afghanistan, da Robert Capa a Tim Hetherington, si compie un percorso in 84 fotografie attraverso le guerre degli ultimi 70 anni, dal 1936 al 2007.

Anzitutto bisogna partire dalle motivazioni ideali degli organizzatori, che hanno conseguentemente guidato i curatori e i selezionatori: l'imperativo della mostra e dell'organizzaione Science for Peace è “dire basta al dramma della guerra”, come recita il sottotitolo. Questa dichiarazione di intenti suona molto “fotografica”: Robert Capa, probabilmente il primo vero reporter di guerra, desiderava restare disoccupato, mentre James Nachtwey scrive sulla hompepage del suo sito: “Sono stato un testimone, e queste foto sono la mia testimonianza. Gli eventi che ho ricordato non dovrebbero essere dimenticati e non si devono ripetere”.

  • fonte: Catalogo Mostra Ombre di Guerra. Fotografia di Corinne Dufka

Se le premesse sono queste è interessante ripercorrere il catalogo e leggere i testi di Alessandra Mauro, Denis Curti, Alessia Tagliaventi e Franca de Bartolomeis, che ricostruiscono episodi poco noti e retroscena sia di alcune delle più famose immagini di guerra, sia di fotografie meno note, anche per verificare quali conflitti ricordiamo e quali sono stati completamente dimenticati.

Chi si ricorda più della guerra civile che ha sconvolto la Liberia dal 1990 al 1997? Una fotografia del 1997 di Corinne Dufka, in cui si vede un militante del Fronte Patriottico di Charles Taylor uccidere a sangue freddo un prigioniero disarmato, ricorda a quali vette di ferocia siano arrivati alcuni conflitti che hanno insaguinato la storia dell'Africa e che spesso abbiamo seguito distrattamente.

La guerra in Cecenia poi ha riguardato solo marginalmente i paesi occidentali, restando un affare interno russo, ed è sembrata da subito lontana, nel tempo e nello spazio; sensazione confermata dall'immagine del prigioniero ferito fotografato da Anthony Suau nel 1990 a Grozny: tutto in quella scena rimanda a un tempo lontanissimo, tanto che, per la tecnologia, l'equipaggiamento e il bendaggio stesso del soldato, sembra una scena proveniente dalla nostra memoria, dalla Prima Guerra Mondiale.

  • fonte: Catalogo Mostra Ombre di Guerra. Foto Larry Burrows
  • fonte: Catalogo della Mostra Ombre di Guerra. Fotografo Alex Majoli

Nelle analisi sempre più frequentemente l'Afghanistan e l'Iraq vengono paragonati, per la politica americana, al Vietnam, indicando con questo il fallimento dell'intervento militare nei due paesi. Straniante, per le somiglianze impressionanti, accostare una delle fotografie a colori di Larry Burrows, ad esempio una del 1966 in cui un soldato ferito è proteso verso un compagno agonizzante, con una di Alex Majoli scattata vicino a Baghdad nel 2003. Il fango di allora è diventato la polvere di oggi, per il resto tutto sembra uguale. Presagi che non possono non inquietare l'America di Obama, alla ricerca di una via d'uscita onorevole.

  • fonte: Catalogo della Mostra Ombre di Guerra. Fotografia di Bruno Barbey
  • fonte: Catalogo della Mostra Ombre di Guerra. Fotografia Dmitri Baltermans

Nel 1991 la prima guerra televisiva della storia, la prima guerra del Golfo, quella che, nella versione ufficiale, aveva come obiettivo la liberazione Kuwait dall'invasione irachena, è stata in realtà invisibile. Le infinite dirette televisive di allora mostravano il cielo di Baghdad solcato dai traccianti e dai missili. Sembrava un videogame, si usa dire riferendosi a quelle immagini, in realtà i videogame, perlomeno quelli di oggi, sono certamente più realistici e capaci di mostrare la sofferenza. Una guerra senza sangue, senza morti, senza dolore, senza fango. Ma con tanta retorica e certamente una disparità tecnologica inquietante, tanto che gli iracheni si dedicarono a una delle tattiche più vecchie, e potenzialmente suicide, fare “terra bruciata” durante il ritiro. Bruno Barbey ritrae una camionetta carica di soldati americani in corsa, mentre sullo sfondo bruciano i pozzi di petrolio, incendiati dagli iracheni in ritirata. Un'immagine apocalittica, che rimanda a un'altra vecchia immagine, risalente alla Seconda Guerra Mondiale. A scattarla in Crimea nel 1942 un fotografo sovietico, Dmitri Baltermants, che ritrae il vagare straziato di un nugolo di anime in pena in una landa desolata, alla ricerca dei corpi dei propri cari uccisi dai nazisti. La fotografia è potentissima e rimanda a scenari da inferno dantesco, così come è descritto in alcuni passi della Divina Commedia.

  • fonte: Catalogo Mostra Ombre di Guerra. Fotografia di Philip John Griffiths
  • fonte: Catalogo della Mostra Ombre di Guerra. Fotografia di Eddie Adams
  • fonte: Catalogo della Mostra Ombre di Guerra. Fotografia di Nick Ut

Il dialogo delle fotografie tra di loro o il riferimento a iconografie classiche, letterarie o, più spesso, pittoriche, offrono una delle possibili chiavi di lettura del catalogo, da percorrere alla ricerca di questi indizi, per provare a capire cosa rende alcune fotografie memorabili.

Perchè questo è un libro fatto di fotografie singole, che si ricordano per la straordinarietà delle situazioni e per la forza simbolica della composizione. Non è possibile in un progetto di questo tipo analizzare più ampie serie fotografiche, nè le opere complete di quegli autori che nella coerenza dell'archivio trovano un loro pieno significato. La fotografia singola rimanda spesso alla pittura ed è indubbio che la nostra memoria ricorda più facilmente immagini singole. Proprio in questo risiede la potenza di queste immagini isolate. Nessuno come Philip John Griffiths ha raccontato il Vietnam durante la guerra e soprattutto dopo, e la sua è la più completa e approfondita documentazione visiva di quel luogo e di quegli eventi. Tuttavia di quella guerra ricordiamo soprattutto singoli scatti: l'esecuzione in strada a Saigon di un vietgong fotografata da Eddie Adams, oppure la bambina colpita dal napalm e ritratta da Nick Ut, per citare due immagini presenti nel libro. La foto singola, pur non possedendo la profondità di un lavoro in serie, spesso assume un ruolo di simbolo, riuscendo a trascendere gli eventi stessi, quando la composizione dell'immagine permette una semplificazione chiara, prestandosi a diventare lo specchio di una condizione più generale.

  • fonte: Catalogo della Mostra Ombre di Guerra. Fotografia di Ron Haviv
  • fonte: Catalogo della Mostra Ombre di Guerra

Semplificando, si potrebbe dire che nel libro sono presenti immagini di diverso tipo, la cui forza risiede in differenti elementi storici, visivi, legati al contesto. Il primo gruppo è formato da quelle immagini la cui memorabilità consiste essenzialmente nell'aver fermato momenti incredibili, cogliendo il culmine della scena: la fotografia di Eddie Adams certamente, così come quella di Corinne Dufka, così le sconvolgenti istantanee di Abu Ghraib o la fotografia dei miliziani al soldo di Arkan, ritratti da Ron Haviv nel 1992 mentre aggrediscono i civili bosniaci. Lo statuto di prova, la drammatica capacità di mostrare l'indicibile rende queste immagini indimenticabili, documento della violenza e della crudeltà umana.

  • fonte: Catalogo della Mostra Ombre di Guerra. Fotografia di Stuart Franklin

Altre fotografie devono la loro fortuna alla potenza simbolica del gesto, in cui l'azione dei protagonisti o degli oggetti ritratti e l'abilità compositiva, semplificatrice, dell'autore, convergono, offrendo così un punto di vista ben preciso e spesso trascendendo gli eventi stessi per diventare immagini (icone, simboli) di significato più generale, rappresentando appunto non eventi, ma sentimenti, idee. Sono le immagini più frequenti nella mostra, secondo la precisa volontà dei curatori che hanno scelto fotografie emblematiche, la nostra memoria visiva degli eventi: dall'uomo che ferma i tank in piazza Tienanmen fotografato da Stuart Franklin, al soldato sfinito dalla guerra fotografato da Tim Hetherington in Afghanistan nel 2007. In quest'ultima immagine, la posa del soldato è ovviamente assimilabile a un sentimento di scoramento e disperazione, diventando simbolo dell'impotenza e della stanchezza dell'America verso una guerra impossibile da vincere, e ha fatto la fortuna di quell'immagine. Questa volta con ragione, altre volte per caso, come si può vedere ricordando lo strano equivoco seguito alla strage di Nassriya .

Anche la foto di James Nacthwey dell'11 settembre 2001 possiede questa potenza simbolica e semplificatrice, che invece non appartiene, ad esempio, a un'altra famosa fotografia scattata da Brooklin, quello stesso giorno, da Thomas Hoepker. Queste foto per solito diventano anche i simboli di intere epoche, transcendendo l'evento ritratto, come scrisse Umberto Eco in riferimento alle immagini più note della guerra in Vietnam.

  • fonte: Catalogo della Mostra Ombre di Guerra. Fotografia di Sebastiao Salgado

Infine ci sono le fotografie che richiamano palesemente iconografie religiose, pittoriche, letterarie, e che da subito si rifanno a questo immaginario. Le fotografie di Salgado hanno spesso questa capacità di abbracciare gli eventi in una prospettiva in cui i richiami biblici sono cercati e magistralmente restituiti. Si prenda l'immagine del Ruanda nel 1995 e contenuta nella mostra e nel catalogo: potrebbe essere la raffigurazione del giorno del giudizio, in cui le anime si radunano in una valle in attesa di conoscere il proprio destino di salvezza o di dannazione.

  • fonte: Catalogo della Mostra Ombre di Guerra. Fotografia di James Nachtwey
  • fonte: Catalogo della Mostra Ombre di Guerra. Fotografia di Georges Merillon

Nel testo di presentazione non si fa mistero degli echi caravaggeschi presenti nella fotografia di Georges Merillon scattata in Kosovo nel 1990 o del collegamento all'iconografia sacra della crocefissione e deposizione di Cristo riscontrabile in una fotografia di James Nachtwey del 1984 in Nicaragua, in cui un guerrigliero ferito diventa un cristo contemporaneo.

  • fonte: Catalogo della Mostra Ombre di Guerra. Fotografia di Abbas

Meno numerose, ed è ovvio in una mostra dedicata alle “icone”, che si propone di ricordare l'orrore della guerra, le immagini problematiche, difficilmente decifrabili, ambigue, che si prestano a diverse letture, che invitano lo spettatore a cercare indizi nei piani secondari, nei particolari fuori dalla scena principale. Immagini meno chiare e che per questo più difficilmente si fanno simbolo. Fotografie dall'impatto immediato meno forte, ma alla lunga forse più disturbanti. Il soldato di Anthony Suau sembra guardare lo spettatore con aria indecifrabile e non possiamo partecipare completamente al suo dolore, non sapendo quali atrocità potrebbe aver commesso. Niente ci suggerisce che sia semplicemente e solamente una vittima. Altre fotografie disturbano per la presenza di elementi stonati, accessori difficilmente inquadrabili in un'ottica bene-male. La scimmia al fianco di un guerriero indonesiano nel Borneo, ritratto da Philip Blekinsop nel 1999, oppure la strana e incongrua struttura, un letto a castello?, su cui siede un mujaheddin fotografato in Afghanistan da Abbas nel 1992. Questi elementi, il punctum avrebbe detto Roland Barthes, conferiscono a queste immagini un'aura contemporaneamente inquietante e affascinante.

Federico Della Bella