Il punto sulla Street Photography

  • didascalia: Lido di Venezia, 1958
  • firma: Gianni Berengo Gardin
  • nota: Foto tratta dalla mostra collettiva "Vietato!", in esposizione alla galleria Belvedere di Milano dal 16 marzo al 14 aprile 2012

Stando così le cose, non potremo più sapere come eravamo (Grazia Neri, 2011)


Fotografia di persone in luoghi pubblici o aperti al pubblico: ripresa, utilizzo, pubblicazione. Principi costituzionali, Legge n.633, Decreto Legislativo 30 giugno 2003, n. 196. Spunti per un dibattito.


Premessa

 

Data la scarsità di pronunce giurisdizionali in materia di fotografia, la sentenza della Corte di Cassazione, sez. V penale, 30 gennaio 2012 n. 3721 Pres. Ferrua – est. Marasca, fornisce lo spunto per riflessioni utili anche al di là della fattispecie esaminata. La Corte annulla un provvedimento di proscioglimento affermando che sussiste il reato di diffamazione a mezzo stampa a carico del  direttore e dell’editore di un quotidiano, per un testo denigratore della mendicità corredato dall’immagine di una mendicante, fotografata per strada, che viene così associata ai contenuti dell’articolo ed è perciò diffamata.

 

E’ impossibile esaminare razionalmente la questione della disciplina legale della fotografia di persone in luoghi pubblici, se non si opera una chiara separazione dei momenti nei quali si articola il procedimento fotografico.  Di fatto, sia nel dibattito fra addetti ai lavori, che negli atteggiamenti sociali, regna una grande confusione: si tendono ad applicare alla ripresa concetti e regole che invece dovrebbero valere solo per l’utilizzo della fotografia. E’ sempre più frequente un atteggiamento di resistenza o anche di violenza da parte di chi, in luogo pubblico, vede nel fotografo un aggressore da fermare, cui proibire la ripresa, considerata come una illecita intrusione nella vita privata del cittadino. Sembra riemergere una concezione rozza, primitiva, superstiziosa della fotocamera come strumento che ruba l’anima. Eppure oggi tutti fotografano, nella più totale ignoranza della storia della Fotografia; tutti mostrano cumuli di immagini private in quel grande “bar all’aperto” che è Facebook, ma nessuno sembra accettare che qualcuno voglia seriamente fotografare la vita della comunità, come  facevano la Street Photography, il fotoreportage sociale, nati in America e in Francia e diffusi in tutto il mondo sull’onda delle straordinarie storie visive raccontate da William Klein, Robert Frank, Eugene Smith, Henri Cartier-Bresson, Robert Doisneau, per citare solo i più pubblicati. Grazie ai loro scatti sappiamo come erano i nostri genitori, come eravamo noi da piccoli, come erano la vita e il costume nella realtà sociale. Nel futuro, forse si conoscerà solo come erano i nostri set, i nostri spettacoli, le inaugurazioni di boutiques, le sfilate di moda. L’eventuale obbligatorietà del consenso preventivo (scritto!) dei fotografati in luogo pubblico segnerebbe la paralisi totale della Street Photography. Il presente spunto cerca di dimostrare che vi sono argomenti per resistere, per non disperare, sempreché qualcuno voglia tirar fuori la fotocamera nascosta e riprendere a usarla in strada. In questo senso vuole anche essere un augurio a Grazia Neri perché i suoi timori diventino infondati.

a) La ripresa fotografica come diritto costituzionalmente garantito.

 

La ripresa fotografica, cinematografica o televisiva in luoghi pubblici o aperti al pubblico, non importa se svolta a titolo professionale o amatoriale, è attività libera, appartiene ai diritti inviolabili di libertà dei cittadini (art.13 Cost.: divieto di qualsiasi restrizione della libertà; art.21 Cost: diritto di manifestare liberamente il pensiero e diffonderlo con ogni mezzo; art.33 Cost. “L’arte e la scienza sono libere” e anzi meritevoli di sostegno: art.9 Cost.“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura”).  Fra i diritti fondamentali di questo rango costituzionale non si ritrova la c.d. privacy: l’art.14 Cost. tutela lo spazio privato con la inviolabilità del domicilio da ispezioni e perquisizioni; l’art.15 Cost. tutela la libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione. In nessuna norma costituzionale si rinviene la tutela del volto (o del corpo) dall’essere visto, guardato, osservato, ripreso, disegnato, fissato su supporto sensibile, quando, beninteso, si trovi in luogo pubblico; quando si trovi in luogo privato è protetto dall’inviolabilità del luogo.

 

b) Il fotografato: privacy o publicity?

 

La strada, la piazza, il bar, il campo sportivo, i parchi: è questo lo spazio dove i cittadini possono vivere senza timori e senza segreti (art.18 Cost.) a viso aperto, si dovrebbe dire, l’effettività dei loro diritti inviolabili (di associazione, circolazione, riunione, manifestazione e diffusione del pensiero, professione e propaganda religiosa, creazione artistica, ecc.).

 

A viso aperto, a volto scoperto. Non è un caso che siano ancora in vigore il divieto di comparire mascherato in luogo pubblico (art. 85 T.U.LP.S.) e quello di usare caschi protettivi o qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona (art. 5 L. 22 maggio 1975, n. 152): illecito amministrativo il primo, reato il secondo. Lo stesso discorso vale per il velo delle donne di religione islamica, con qualche titubanza applicativa, da risolvere in logica di mera riconoscibilità, cioè di entità della copertura-scopertura.

 

Principio della trasparenza nel luogo pubblico come contrappasso a quello della riservatezza nel domicilio privato? sembrerebbe ovvio. Invece si dà fiato alla rivendicazione del diritto di “passeggiare con l’amante”, con proibizione al fotografo di riprendere i passanti perchè la relazione, casualmente, potrebbe essere svelata ai rispettivi coniugi. Atteggiamento ottuso, oltre che illegittimo, posto che il volto scoperto espone qualunque passante “birichino” al possibile riconoscimento da parte di testimoni (ben più pericolosi dell’ignaro fotografo): in strada non ci può essere privacy, perché c’è publicity (the state of being in the public eye). 


c) limiti alla ripresa.

 

Ma possibile che i fotografi e i video operatori sono assolutamente liberi di fare quel che vogliono  in fase di ripresa? In realtà l’ordinamento prevede: ovvi limiti generali di contenuti (buon costume) o di metodi (non turbare l’ordine pubblico); qualche divieto oggettivo (installazioni militari, edifici carcerari) per ragioni di sicurezza. L’unico divieto espresso (ma non assoluto) di ripresa senza il consenso preventivo, lo si trova nell’art.8, comma 2 del Codice di Deontologia per l’attività giornalistica, pubblicato dal Garante della Privacy il 28 luglio 1998: Salvo rilevanti motivi di interesse pubblico o comprovati fini di giustizia e di polizia, il giornalista non riprende ne produce immagini e foto di persone in stato di detenzione senza il consenso dell'interessato. Forse questa più avanzata restrizione deriva dal riconoscere che il detenuto è già in tale stato di menomazione, che il solo fatto di percepire la ripresa lo può umiliare; la questione è nata in occasione di alcuni arresti “eccellenti” ai tempi di “mani pulite”. Per quanto riguarda la grande massa dei detenuti sono noti non pochi pregevoli fotoreportages finalizzati a narrare le condizioni di vita nel carcere, nell’interesse pubblico all’informazione e nell’interesse degli stessi carcerati. Altro limite ovvio deriva dalla legge penale, che vieta violenze e molestie: va da sé che la ripresa realizzata con pressione fisica o con metodi assillanti (paparazzismo) è illecita e la opposizione del fotografato è legittima. Parimenti illecita, va da sé, ma non è questo il punto in discussione, la ripresa clandestina dentro il domicilio, realizzata con l’inganno (teleobiettivi attraverso finestre, fotocamere dissimulate, o simili). 


d) Conclusione.

 

Dunque, in via generale, la ripresa “normale, pacifica” in luogo pubblico o aperto al pubblico non ha bisogno di consenso preventivo e perciò ogni violenza al fotografo, ogni pretesa di “distruggere il rullino o cancellare il file” è illecita.                                                                                                  

 

La ripresa fotografica, quale che sia la fotocamera usata (argentica o digitale) non dà luogo ad alcun prodotto definitivo, consolidato, pubblico, ma solo ad una “creazione virtuale privata” che non ha in questo momento alcun rilievo nella sfera del fotografato, potendo avere i destini più diversi che spesso nemmeno lo stesso autore è in grado di prevedere (fallita, cancellata, negletta, stivata in un cassetto o in un archivio? o, invece, pubblicata, esposta, venduta, premiata?). Con il processo digitale, poi, l’immagine potrebbe anche essere elaborata per legittimi fini creativi con cancellazione/alterazione del volto e perdita della riconoscibilità. Certo non è argomento semplice né facilmente persuasivo, ma dovrebbe essere chiarito al fotografato che una lesione ai suoi diritti è solo ipotetica e potenziale: né la pubblica autorità, né tantomeno lui, ha facoltà di censura preventiva (art. 21 Cost.) sull’immagine latente nella camera oscura del cittadino fotografante, così come sarebbe inammissibile sul taccuino del giornalista di penna, prima che rientri al giornale, prima che il giornale sia stampato.

a) La fotografia come prodotto, nelle leggi vigenti: la Legge n.633.

 

La Legge n.633 del 1941 sul Diritto d’Autore, abbondantemente rimaneggiata, è tutt’ora in vigore, anche dopo l’approvazione del Decreto Legislativo 30 giugno 2003, n. 196, Codice in materia di protezione dei dati personali (c.d. Legge sulla privacy). La Legge 633 si occupa del diritto d’autore per ogni genere d’opera; nel Capo V, Diritti relativi alle fotografie, non detta regole per la ripresa, ma solo per la fotografia come prodotto successivo. Unica descrizione “a monte” è quella contenuta nell’art.87 che definisce che cosa è una fotografia:Sono considerate fotografie, ai fini dell'applicazione delle disposizioni di questo capo le immagini di persone o di aspetti, elementi o fatti della vita naturale e sociale, ottenute col processo fotografico o con processo analogo, comprese le riproduzioni di opere dell'arte figurativa e i fotogrammi delle pellicole cinematografiche. C’è in questa norma un riconoscimento dell’ampiezza dell’impegno culturale e sociale del fotografo, che sembra incredibile per l’epoca in cui fu scritto, e sembra più avanzato di certe concezioni odierne.


b) Uso del ritratto fotografico nella L.633: regola del consenso, analisi delle eccezioni. 

 

Nel Capo VI, Sez.II, Diritti relativi al ritratto, La legge n.633 regola l’esposizione, la riproduzione, la vendita di un ritratto, ponendo in generale l’obbligo del consenso da parte del fotografato a tale utilizzo (non alla ripresa, che si suppone già avvenuta) ma concedendo subito dopo diverse deroghe motivate. La legge non dà la definizione di ritratto fotografico, perciò si deve intendere compresa nella disciplina qualsiasi immagine in cui la persona sia riconoscibile, anche se a figura intera o inclusa in una folla.

 

L’art.96 recita: Il ritratto di una persona non può essere esposto, riprodotto o messo in commercio senza il consenso di questa, salve le disposizioni dell'articolo seguente.

 

L’art. 97: Non occorre il consenso della persona ritrattata quando la riproduzione dell'immagine è giustificata dalla notorietà o dall'ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico. Il ritratto non può tuttavia essere esposto o messo in commercio, quando l'esposizione o messa in commercio rechi pregiudizio all'onore, alla reputazione od anche al decoro della persona ritrattata.

 

Vediamo da vicino l’art.97. Il consenso non occorre:1.se il ritrattato è un personaggio famoso o un “uomo pubblico” (non importa dove fotografati); 2. se l’immagine serve a magistratura o polizia (foto segnaletica, ma non solo); 3.se la pubblicazione è fatta a scopi scientifici, didattici o culturali; 4.se la pubblicazione è collegata a fatti di interesse pubblico (dovunque verificatisi); 5. o se la pubblicazione è collegata a fatti anche non di interesse pubblico, ma svoltisi in pubblico.

 

Si noti la differente definizione dei presupposti: 

 

i) per le deroghe di cui ai punti 1,  2 e 3 la pubblicazione deve essere giustificata (dalla qualità della persona o dallo scopo giudiziario, scientifico, culturale) perché si tratta di immagini che possono essere state riprese anche in ambienti privati o in occasioni private (uno scrittore, un pittore, nel proprio studio; festa privata a casa di un governante; cerimonia che dimostra conoscenza fra indagati: Andreotti e fratelli Salvo, foto di Letizia Battaglia). 

 

ii) per le deroghe di cui al punto 4 invece, la pubblicazione deve essere collegata a (deve parlare di) un fatto, avvenimento, cerimonia di interesse pubblico (un collezionista dona al Comune un’opera d’arte e invita alla cerimonia, in casa propria, le autorità cittadine, parenti, collezionisti, amici, appassionati; le fotografie dell’evento coinvolgono diversi soggetti: è legittima la pubblicazione anche se il luogo è privato e i ritrattati semplici sconosciuti). 

 

Nota: il denominatore comune delle ipotesi fin qui esaminate è evidentemente l’interesse della generalità dei cittadini all’informazione su personaggi pubblici o su fatti di interesse pubblico; ciò, si badi bene, già prima che nella nostra Costituzione si ribadissero quei valori in modo ancor più netto e completo come diritto-dovere di cronaca per i giornalisti, che prevale sull’interesse alla riservatezza del singolo privato. Oggi (art.21 Cost.) il giornalismo è libero perché non deve preventivamente chiedere consenso, cioè autorizzazione, a raccogliere, pubblicare o diffondere notizie di interesse pubblico. 

 

iii) quando poi - punto 5, ipotesi disgiunta dalla o - un evento, fatto, avvenimento, cerimonia si svolgono in pubblico, la legge esonera dal consenso, si noti bene, anche se manca l’interesse pubblico (fotografie di un matrimonio su sagrato di chiesa o su piazza di municipio: è legittima la pubblicazione non solo dei volti degli sposi, ma anche di passanti e curiosi che, per loro libera scelta, si sono “affacciati” alla cerimonia).  Il fondamento dell’esonero in quest’ultima ipotesi, per il legislatore, è la pubblicità del luogo dove persone vengono ritratte; è  questa una ragione forte di esproprio della facoltà di veto, a prescindere sia dalla qualità delle persone che dall’interesse pubblico del fatto documentato. Questa norma, anteriore alla Costituzione, prende oggi luce dal principio di “trasparenza” degli spazi pubblici indubbiamente sotteso alla nostra Carta fondamentale. Si veda quanto detto sopra in “Privacy-Publicity”. Vedremo più avanti che tale principio riaffiora nettamente anche nel Decreto Legislativo n. 196 del 2003.

 

iv) ma che dire della fotografia di persone in luoghi pubblici quando (apparentemente) non accadono ne fatti, né avvenimenti, né cerimonie (casi emblematici: la nostra mendicante di cui alla sentenza, o gli homeless sui marciapiedi, o la folla a passeggio per lo shopping, o il passante solitario in una piazza deserta)? Se non si ritiene di ricondurre questi casi alla deroga di cui al punto 5, usando un’interpretazione estensiva del concetto di “fatto” (la presenza della mendicante intenta all’accattonaggio è un “fatto” che si svolge in pubblico), si potrà ricorrere a quella, più severa, del punto 3, cioè la “giustificazione culturale”. Premesso che comunque anche in questi casi non saranno leciti ostacoli preventivi alla ripresa fotografica, si tratterà dunque di valutare, in fase di esibizione o pubblicazione, se l’immagine documenta un fatto culturalmente rilevante (negli esempi: “povertà urbana dilagante, consumismo, desertificazione del centro cittadino”) che merita di essere comunicato (giustifica la comunicazione) al pubblico.

 

v) non pone problemi l’ultima frase dell’art.97, l’ovvia “eccezione alla deroga”: anche se non occorre il consenso, o se il consenso è stato dato, non si pubblica un’immagine se la pubblicazione può offendere la dignità del fotografato. E’ il caso di cui alla sentenza 30 gennaio 2012. la foto della mendicante in luogo pubblico, legittimamente ripresa dal fotografo, legittimamente pubblicabile in un contesto culturale rispettoso, scorrettamente pubblicata, dice la Cassazione, perché introdotta in un articolo pesantemente razzista, denigratorio, insultante. La fotografia di una bella ragazza sensuale, pubblicata a corredo di un pezzo sulla prostituzione, subirebbe la stessa bocciatura. Ma anche nel caso di semplice pregiudizio non diffamatorio, l’art.10 del Codice Civile prevede un ricorso al giudice per far cessare l’abuso e per l’eventuale risarcimento dei danni (tifoso entusiasta in tribuna: legittimamente ripreso e pubblicato qualche volta, non può diventare il logo fisso di una rubrica calcistica quotidiana o settimanale, o, peggio, uno spot commerciale). In tutti questi casi, comunque, se la diffamazione o il danno al decoro derivano dal contesto editoriale, non vi è responsabilità del fotografo che ha realizzato e consegnato la fotografia all’editore/direttore, spettando a questi il potere-dovere di contestualizzare in modo corretto o di non pubblicarla; salvo naturalmente che il fotografo abbia scientemente fornito notizie false a corredo dell’immagine.

a) Credo si possa dire anzitutto che l’art. 97 appena esaminato sia tuttora uno strumento più che robusto per garantire spazi legittimi alla Street Photography: siamo in una prospettiva di valutazione a posteriori della “continenza” cioè adeguatezza della pubblicazione della fotografia, con criteri a cui occorrere restare ben ancorati, ma con una lettura non miope, non tanto per tutelare i diritti dei fotografi, ma per rispetto della Costituzione. La legge del 1941 non può più essere letta restrittivamente, per almeno tre motivi: primo, perché la cultura (l’arte) è libera in sé, nel suo prodursi, e non è più, come in epoca fascista, la “giustificazione” della comunicazione; secondo, perché, a prescindere dai contenuti,  la comunicazione è il libero veicolo di libere manifestazioni del pensiero;  terzo, perché nel frattempo la fotografia non è più solo un mestiere, ma è riconosciuta come uno dei linguaggi dell’arte, un fenomeno culturale, un mezzo di informazione. 

 

b) Poi c’è il nuovo Codice per il trattamento dei dati personali (Decreto Legislativo n.196 del 2003) che si occupa in generale del trattamento professionale, fatto con qualunque mezzo, dei dati personali ad opera di banche dati o altri soggetti prescrivendo severi limiti, obblighi e autorizzazioni: primo fra tutti, il consenso della persona interessataa. La cosa ci riguarderebbe perché la fotografia rientra nel concetto generale di dato personale e, a seconda dei casi, in quello di dato identificativo (ritratto riconoscibile) o dato sensibile (se l’immagine rivela razza, religione, opinioni politiche, ecc.) o dato giudiziario (se per es. rivela lo stato di imputato). Senonché i fotografi e i giornalisti, pur raccogliendo e trattando dati, non sono banche dati; gli uni e gli altri sono, all’occasione, giornalisti, scrittori, artisti, saggisti. Perciò il Titolo XII del Decreto 196, con l’emblematica intestazione Giornalismo ed espressione letteraria e artistica, prevede ampie libertà per chi opera con Finalità giornalistiche e altre manifestazioni del pensiero. Secondo l’art.137, comma 2 “non è necessario il consenso dell’interessato” (nè l’autorizzazione del Garante) se il trattamento dei dati (per es. archiviazione e pubblicazione di dati, testi o fotografie) è effettuato:

 

i) sia come attività professionale  di giornalisti (art.136, lett.a) e pubblicisti (lett.b);

 

ii) sia come attività amatoriale o free-lance, cioè “per la pubblicazione o diffusione occasionale di articoli, saggi e altre manifestazioni del pensiero anche nell'espressione artistica” (art.136, lett.c)

 

E’ evidentissima, per questi due casi, l’analogia con gli esoneri dal consenso previsti dal “vecchio” art.97 L.633 del 1941 (non solo per la “giustificazione culturale” ma in tutte le sfumature dell’interesse pubblico all’informazione). Ce lo spiega, come meglio non si potrebbe, l’art.1 del Codice Deontologico dei giornalisti (Allegato A al Decreto 196): si tratta di “contemperare i diritti fondamentali della persona con il diritto dei cittadini all'informazione e con la libertà di stampa” e ancora: ”In forza dell'art. 21 della Costituzione, la professione giornalistica si svolge senza autorizzazioni o censure. In quanto condizione essenziale per l'esercizio del diritto dovere di cronaca, la raccolta, la registrazione, la conservazione e la diffusione di notizie su eventi ... relativi a persone.... attuate nell'ambito dell'attivita' giornalistica ... si differenziano nettamente per la loro natura dalla memorizzazione e dal trattamento di dati personali ad opera di banche dati o altri soggetti. Su questi principi trovano fondamento le necessarie deroghe.” Ciò calza a pennello anche per i fotografi di ogni genere: la raccolta (ripresa) prima, la pubblicazione (diffusione) poi, di fotografie, danno luogo ad attività giornalistica sia quando le immagini sono un messaggio significativo a sé stante, sia quando supportano un discorso espresso in un articolo. Naturalmente, precisa subito l’art.137, comma 3, prima frase, “restano fermi i limiti del diritto di cronaca a tutela dei diritti di cui all'articolo 2 e, in particolare, quello dell'essenzialità dell'informazione riguardo a fatti di interesse pubblico”. Opportuno richiamo alla prudenza dei giornalisti, dopo il riconoscimento di ampie libertà, con invito ad aver sempre di mira informazioni essenziali che interessino il pubblico (continenza): per esempio, no gossip, no morbosità, o il minimo indispensabile. Rimane dubbia l’applicabilità in concreto di questa ammonizione ai prodotti saggistici, letterari, artistici, che pure godono a pieno titolo degli esoneri e fra i quali si colloca senza esitazioni la fotografia, la quale o sta nel “gruppo giornalismo”, oppure nel “gruppo arte-cultura” (talvolta in tutti e due, mi pare) ma è da accogliere volentieri come forte indirizzo. Con ciò sembrerebbe ultimato il discorso sulle deroghe, e invece c’è una bella sorpresa.

 

iii) La seconda frase del comma 3 dell’art.137 afferma: “Possono essere trattati i dati personali relativi a circostanze o fatti resi noti direttamente dagli interessati o attraverso loro comportamenti in pubblico.” 

 

Affermazione netta, inserita in una sequenza logica di questo tipo: il trattamento dei dati per finalità giornalistiche e la diffusione occasionale di articoli, saggi e altre manifestazioni del pensiero e dell'espressione artistica godono degli esoneri di cui all’art.137; tuttavia devono rispettare i limiti generali di continenza; viceversa non ci sono limiti al trattamento di dati per così dire “di provenienza diretta ed autentica dal soggetto”. Interessante, molto interessante. In pratica è un esonero del terzo tipo, una liberatoria “autoprodotta”. Dunque, per fare un esempio: il fotografo può fotografare (il giornalista riferire le parole, raccontare, descrivere) un cittadino portacroce in processione pasquale o un altro prosternato davanti alla moschea; il giornale può pubblicare la relativa immagine, ma può anche scrivere, in didascalia o nell’articolo a commento: “ecco un devoto cristiano, ecco un praticante musulmano” (dati sensibili desunti dal comportamento). Non si potrà scrivere, a commento di tali foto “ecco un fondamentalista” o “ecco un fanatico”; ma si potrà dire che lo sono quando gli stessi abbiano dichiarato di condividere l’uccisione di medici abortisti o gli attentati suicidi. Il comportamento in pubblico, a volte anche solo la presenza in certi luoghi pubblici, in certe manifestazioni o cerimonie, ha dunque per l’ordinamento questo tremendo valore significante, parificato al “render noto direttamente”, una specie di outing generalizzato per fatti concludenti (come i cortei del Gay Pride insegnano). In corrispondenza, c’è il tremendo potere della Fotografia (del Giornalismo), di cogliere quella realtà, mostrarla, raccontarla. Se questo è il senso dell’ultima frase dell’art.137, si tratta di un ritorno armonico dell’ultimo tipo di esonero dall’obbligo di consenso previsto nell’art. 97 della Legge n.633 per fatti, avvenimenti, cerimonie [di interesse pubblico o] svoltisi in pubblico. Anzi, si intravede un allargamento o chiarificazione dell’esonero, che non copre più solo le fotografie di persone dentro fatti, avvenimenti, cerimonie, ma anche fotografie di semplici comportamenti in pubblico di singole persone. In altre parole è una straordinaria conferma e uno sviluppo della linea affacciatasi già nel 1941 e continuata nell’idea della trasparenza in luogo pubblico insita nella Costituzione. 

 

Mostrare gli uomini “as they are” per raccontare la società, significa concorrere al suo progresso: mostrare esseri felici fa bene alla speranza; mostrare uomini e donne diversi fa bene alla tolleranza; mostrare le sofferenze stimola a rimuoverle (art.3, secondo comma, Cost.). Ciò anche a costo di disturbare qualche privata comodità, qualche disinvoltura, qualche egoismo. Naturalmente e in tutti i casi nel rispetto della dignità umana e senza eccessi non necessari, ma anche nel massimo rispetto della libertà intellettuale e di opinione. La Street Photography non è finita, può continuare, credo. La Legge lo consente, la Giurisprudenza, speriamo, anche.