Il 24 marzo 2003 l'Unità ha pubblicato a pagina 8 la fotografia che vediamo in questa pagina.
A sua volta la foto era accompagnata dalla didascalia seguente:
Un padre con in braccio il corpo senza vita della piccola figlia morta sotto un bombardamento su Bassora. Nabil/AP
La fotografia originale era invece accompagnata dalla seguente didascalia:
An unidentified Iraqi man holds an unidentified girl wounded after U.S.-led coalition air strikes over the southern Iraqi city of Basra, Saturday March 22, 2003. (AP Photo/Nabil)
Traduzione:
Un uomo iracheno non identificato regge tra le braccia una bambina irachena non identificata ferita in seguito ai bombardamenti della coalizione guidata dagli Stati Uniti su Bassora, città dell'Iraq meridionale. Sabato 22 marzo 2003. (AP Photo/Nabil)
a) che tra l'uomo e la bambina c'è un rapporto di parentela padre-figlia
b) che la bambina è morta
Non sappiamo cosa abbia spinto la redazione a "forzare" il senso della foto in questa direzione di retorica lacrimosa, ma abbiamo sufficienti elementi per ricavarne la fondata convinzione che il testo originale fornito assieme all'immagine dall'agenzia venga costantemente interpretato nelle redazioni dei giornali italiani come un canovaccio sul quale l'estro e l'immaginazione dei redattori deve esercitarsi (non siamo stati forse noi italiani gli inventori della Commedia dell'Arte?), proprio per dimostrare professionalità.
Forse non sarà inutile ricordare ai colleghi giornalisti de l'Unità questo passaggio di un noto testo scritto più di quarant'anni fa da Roland Barthes:
"La fotografia di giornale è un messaggio. L'insieme di questo messaggio è costituito da una fonte emittente, un canale di trasmissione e un ambiente recettore. La fonte emittente è la redazione del giornale, il gruppo di tecnici di cui certi prendono la fotografia, altri la scelgono, la compongono, la trattano e di cui altri, infine, la intitolano, la corredano di dicitura e di commento. Il gruppo ricevente è il pubblico che legge il giornale. E il canale di trasmissione è il giornale stesso, o più esattamente, un complesso di messaggi concorrenti, di cui la fotografia è il centro, ma i cui contorni sono costituiti dal testo, il titolo, la dicitura, la impaginazione, e in un modo più astratto ma non meno "carico di informazione", il nome stesso del giornale (...)"
Va sottolineato il fatto che quando Barthes scrisse questo saggio (1961) c'erano però almeno due differenze principali nella struttura produttiva dei giornali, rispetto alla situazione odierna:
1 - le fotografie che arrivavano nelle redazioni non sempre avevano una didascalia, e se c'era non sempre era particolareggiata e precisa nell'indicare luoghi, nomi, date e altri dettagli informativi.
2 - all'interno dei giornali, come ricorda Barthes, avevano a che fare con le fotografie dei "tecnici", mentre ora ci sono i redattori, i photo editor, gli art director: tutti giornalisti professionisti iscritti all'Ordine, ai quali non dovrebbe sfuggire l'importanza di una corretta didascalizzazione delle foto. Agli stessi giornalisti professionisti non dovrebbe sfuggire nemmeno quanto contenuto nella "Carta dei doveri del giornalista", stipulata l'8 luglio 1991 tra Ordine dei Giornalisti e Federazione Nazionale della Stampa. Tra i Princìpi, v'è scritto:
"I titoli, i sommari, le fotografie e le didascalie non devono travisare, né forzare il contenuto degli articoli o delle notizie".
Ecco i motivi per cui siamo sorpresi (è un eufemismo) che ancora oggi, nel 2003, considerando che TUTTE le fotografie che arrivano attraverso le agenzie di stampa internazionali hanno didascalie ricche di dettagli precisi, ci si permetta ancora di travisarle, di inventarle, o, come in questo caso, di tingerle di una prosa strappalacrime di cui nessuno sente particolare bisogno, essendo già sufficientemente drammatici gli avvenimenti ai quali, di questi tempi, fanno riferimento le immagini.
Vorremmo, come lettori, una cosa molto semplice, anche quando si tratta di didascalie: news e non fiction.
Vorremmo, come fotogiornalisti, una cosa un po' meno semplice: rispetto per il nostro lavoro.
Marco Capovilla