- didascalia: Un soldato italiano davanti alla palazzina nel centro di Nassiriya distrutta dall'azione dei terroristi suicidi
- firma: Foto Ap/Anja Niedringhaus
- fonte: Corriere della sera
- titolo articolo: La disperazione
Il 13 novembre 2003 numerosi quotidiani in tutto il mondo (e numerosissimi quotidiani italiani, a cominciare dai sei più diffusi) hanno pubblicato in prima pagina una foto di Anja Niedringhaus/Associated Press, che ritraeva un soldato italiano di fronte alle macerie della sede del comando italiano a Nassiriya, Iraq, fatto saltare in aria con un camion carico di esplosivo. Nella deflagrazione e nel conseguente crollo dell'edificio erano rimaste uccise 27 persone, tra le quali diciannove italiani.
Il nostro Osservatorio parte dunque, ancora una volta, dalla constatazione della straordinaria uniformità delle scelte iconografiche adottate dai giornali, ma in questo caso, a differenza di altre volte, gli italiani sono in buona compagnia a livello planetario.
La prima traccia da seguire per cercare di capire le ragioni della scelta parte dall’analisi delle condizioni oggettive. Occorre chiedersi: c’era, dell’evento in questione, una scarsità di immagini tale da far concentrare la scelta dei giornali in maniera quasi automatica proprio su quella foto? Ricordiamo, a tale proposito, che nel caso della tragedia dello Shuttle, esploso nella fase di rientro nell’impatto con l’atmosfera terrestre, (notizia pubblicata lo scorso 3 febbraio, vedi nostro osservatorio
Tutti col casco ) c’era stato il problema della dispersione dei frammenti di navicella spaziale su un’area di migliaia di chilometri quadrati. L’aspetto dei resti dello Shuttle ritrovati era, per la maggior parte, assai poco riconoscibile e scarsamente evocativo, per cui la foto di un casco spaziale intatto, a parte la visiera infranta, adagiato sull’erba era diventato una scelta se non obbligata, certamente prevedibile.
In questo caso le cose sono andate diversamente.
Le prime fotografie disponibili, pubblicate ad esempio da Liberation in prima pagina e da Liberazione in terza, sono dell’agenzia Reuters e si riferiscono ai momenti immediatamente successivi all’esplosione: segno che almeno un fotografo, collegato al network internazionale dell’agenzia di news britannica, era sul posto già fin dal momento dell’attentato.
Si può legittimamente supporre che nel corso della giornata, a partire dalle 10 e 40 del mattino, momento dell’esplosione, questo fotografo abbia continuato a documentare l’evento con altre immagini. In ogni caso altre foto apparse sui giornali erano firmate Reuters e inoltre altre ancora avevano la sigla EPA e sono state tutte scattate in luce diurna. Dunque sul posto si trovavano già, o sono arrivati nel corso della giornata, altri fotogiornalisti distribuiti dalle grandi agenzie di stampa internazionali.
La foto AP, invece, è stata fatta dopo il tramonto del sole, alla luce delle fotoelettriche e in presenza anche di luci approntate dagli operatori TV. Non sappiamo se Anja Niedringhaus abbia scattato altre foto, prima e dopo quella pluripubblicata. In ogni caso, se anche si è trattato, com’è probabile, di scegliere tra un numero limitato di foto, osserviamo che la scelta di molti media è caduta su una immagine molto particolare, molto rarefatta, dalla quale sono scomparsi tutti i segni accidentali e incontrollabili dovuti all’atmosfera concitata che sempre si accompagna ad un attentato grave come questo.
Nella fotografia sono spariti gli elementi di “disturbo” (viavai di persone, ambulanze, fumo, frammenti, detriti ecc.) presenti intorno alla palazzina della Base Maestrale ed è presente soltanto il minimo necessario per evocare, non certo per documentare, l’evento: un militare di guardia dall’aria mesta e preoccupata (vedi il titolo del Corriere: “La disperazione”) e lo scheletro abbandonato dell’edificio sventrato. La foto raffigura uno scarno “a posteriori”, è una “foto del giorno dopo”.
Dicevamo che altri giornali, pochi, hanno preferito scelte diverse, come per esempio Liberation, che pubblica una immagine dell’evento nelle fasi immediatamente seguenti l’esplosione: dal fumo che avvolge la palazzina fugge un civile irakeno incolume. Oppure l’International Herald Tribune, che ci mostra le fasi relative ai soccorsi, con viavai di persone intorno alla base.
Oppure ancora l’Unità, che pubblica un fermo immagine tratto dal video trasmesso dal TG1 (la cui sigla appare in basso a destra nell’immagine), caratterizzato in primo luogo dai noti compromessi di qualità e leggibilità dell’immagine che necessariamente accompagnano la scelta di trasformare una videata di schermo televisivo in una immagine fissa di ampie dimensioni (sei colonne). Anche qui, comunque, abbiamo gli attimi successivi allo scoppio. Segno che qualcuno, non sappiamo se operatore professionista o videoamatore, era presente nelle immediate vicinanze del luogo.
Aggiungiamo, a titolo di commento, un breve passaggio tratto dal sito statunitense di studi sul giornalismo www.poynter.org , scritto da Mario Garcia, studioso di media, che sostiene:
“Indiscutibilmente i lettori non dedicano più di dieci secondi alla prima pagina di un giornale. Le prime pagine dei giornali non sono oggetti da studiare, sono degli stimoli ai quali reagire. Sfortunatamente questo tempo si è ulteriormente accorciato negli ultimi anni. Per superare il “test dell’edicola” o “del tavolino da bar”, una prima pagina di quotidiano deve essere dotata di un forte impatto visivo e il 99 per cento delle volte questo poggia sull’uso di una buona fotografia.”
E, più avanti:
“Niente, ripeto niente, può essere efficace come una foto per farci reagire da un punto di vista emotivo” (…)
Da queste poche righe emerge, carico di significati, un termine che allude a molte categorie, senza specificarle: il termine “buona fotografia”. Il fatto che sulla foto utilizzata dai giornali per documentare l'atto terroristico di Nassiriya si sia verificata una tale convergenza di scelte fa ritenere che siamo, in questo caso, di fronte, appunto, ad una “buona fotografia”, almeno dal punto di vista di chi prende le decisioni riguardanti le immagini nei media. Di questo concetto parliamo diffusamente anche nelle nostre riflessioni e dovremo tornare a parlare presto. E’ infatti questo il fulcro attorno al quale ruota il senso della nostra professione, delle nostre scelte, delle nostre carriere professionali. Ed è anche il senso attorno al quale si struttura e prende quotidianamente forma l’informazione giornalistica veicolata da immagini e, in ultima istanza, l’opinione pubblica.
Marco Capovilla