Un lettore di Fotografia & Informazione, Davide Sala, ci segnala un articolo di
Adriano Sofri su Repubblica , in cui, con particolare riferimento ai bambini morti di Gaza, si torna ancora una volta sull’opportunità di pubblicare immagini forti, al limite del raccapricciante, per dovere di informazione, ovvero per smuovere coscienze e opinioni pubbliche. Considerando che le analisi politiciste di questi giorni attenuano la percezione del dramma contingente e la durezza dell’aggressione in corso, crediamo sia giusto far vedere cosa è realmente la guerra, ricordando che le sue prime conseguenze non sono politiche, strategiche, storiche, ma umane, violentemente e direttamente agenti sulla vita delle vittime. Il tema è stato affrontato negli anni più volte, da studiosi, filosofi, giornalisti, spesso in concomitanza con guerre o catastrofi di grande interesse per l’opinione pubblica. Susan Sontag in “Davanti al dolore degli altri” ha analizzato approfonditamente il dilemma. L’efficacia e la necessità dipendono dai parametri culturali e valutativi contingenti: le stesse immagini possono suscitare reazioni diverse, quando non addirittura opposte, secondo il contesto in cui sono inserite. Si pensi ad esempio che dalle campagne di esplorazione ottocentesche arrivavano in Europa, dai paesi esotici colonizzati, fotografie in cui la sottomissione delle popolazioni indigene all’uomo bianco era evidente. In una società colonialista, apertamente e pacificamente razzista, tali immagini non suscitavano alcun sentimento di ripulsa, così come non destavano scandalo (in anni di pudicizia vittoriana!) fotografie di nudità, soprattutto femminile, provenienti da quei luoghi. Si potrebbe dunque dire che la pubblicazione di immagini scioccanti ha senso quando queste sono inquadrate in un contesto storico e politico che le renda comprensibili, in cui si possano identificare le cause, e magari le possibili soluzioni, in cui la vista possa aiutare la comprensione e la partecipazione al dramma delle vittime. Contesti astorici, o genericamente umanistici, possono invece generare un sentimento di generica pietà, con effetti addirittura anestetizzanti.