- firma: Stefano De luigi/ VII network
- fonte: Pornoland, ed. Contrasto 2004
Photoshop. Non credo di ricordare il primo momento in cui quando ho sentito questa parola, che poi avrei pronunciato migliaia di volte, negli anni.
Ricordo invece molto bene il periodo in cui questo software è entrato nel nostro mondo, nella vita e nelle chiacchiere dei fotografi. Si è introdotto tra noi dapprima in sordina, come un convitato in apparenza timido. Nel tempo, la sua presenza è diventata sempre più imponente, scomoda direi, quasi come ospite soffocante, del quale vorresti volentieri sbarazzarti, ma che sai essere destinato a rimanere a casa tua per il tempo a venire.
Mi è stato detto che Photoshop ha compiuto vent’anni. E mi hanno chiesto di descrivere il rapporto che intercorre tra me e lui, il software. “Quante volte a settimana, figliolo?”, insomma. Cose del genere. Come in tutti i cambiamenti epocali, Photoshop mi pare sia solo un elemento, una parte di questo insieme di novità che si sta muovendo intorno alla fotografia. Non è il singolo elemento, ma il senso ultimo di questa innovazione, ad essere molto più importante. Definitivo e rivoluzionario.
Photoshop è stato per la fotografia un messaggero, un ambasciatore inviato da terre lontane. Veniva ad annunciarci che questa rivoluzione era giunta.
È la rivoluzione che è in procinto di investirci. Uno sconvolgimento della fotografia che porta diversi nomi: chiamiamola “motion”, “movie”, “multimedia”. Di fatto, siamo di fronte ad un linguaggio nuovo, che prevede la somma di contributi diversi, come audio, immagini video, still-images (fotografie) e forse anche altro. Questa nuova forma di comunicare si sta affermando come una richiesta parallela per ora, come un qualcosa in più.
A mio avviso, però, diventerà in tempi brevi obbligatoria quando si sarà in assegnato per conto delle testate internazionali. Tutto ciò porterà ad un cambiamento definitivo del linguaggio fotografico e nel fotogiornalismo. Photoshop ha aperto la strada, ha innescato questa serie di cambiamenti. Ha creato un universo di co-protagonisti (i post-produttori), che per quel che riguarda il reportage ha a Roma uno tra i laboratori più importanti a livello mondiale.
Infatti, negli anni ‘90 abbiamo assistito alla nascita, alla crescita e al dominio per un decennio della scuola danese di Photoshop. Una corrente fautrice di un bianco e nero drammatico, dai toni inverosimilmente cupi e contrastati che in quegli hanno ha ispirato il gusto e lo stile di molti post-produttori nel resto del mondo.
Oggi è il momento dell’Italia e del colore. Un approccio che si è imposto sulla scena internazionale anche grazie a diversi nomi eccellenti del fotogiornalismo mondiale, che “scaldano” regolarmente i loro lavori nei laboratori italiani, dove artigiani accuratissimi, a volte geniali, hanno dato vita ad una sorta di movimento fotografico/rinascimentale.
Questi post-produttori, consapevoli del loro valore aggiunto, hanno per un momento accarezzato l’idea di firmare insieme all’autore la foto stessa, per poi ripiegare su una più realistica menzione come post-produttori, che però è molto di più della qualifica di stampatore che negli anni passati potevamo leggere nei colofon dei libri o delle mostre.
Personalmente ho visto il lavoro di molti colleghi diventare irriconoscibile al termine di sedute di Photoshop, neanche fossero passati dal chirurgo estetico per un’operazione riuscita male.
Una sensazione simile la provo a volte per la strada, quando ho l’impressione che molte facce si assomiglino terribilmente. Bocca, zigomo, mento, naso. Plasmati da mano sapiente ma ripetitiva. Così succede per i lavori di alcuni colleghi. Guardandoli attentamente, si può capire da quale post-produttore sono passati per accendere la passione nei colori del loro lavoro, per saturare cieli che finiscono per essere simili in modo imbarazzante, anche se i sono stati scattati a latitudini molto diverse tra loro. E’ inutile girarci intorno: non c’è la stessa luce nel cielo di Nairobi ed in quello di Tokyo. Io stesso mi sono trovato a discutere molte volte del colore del cielo, portando prove concrete a qualche post-produttore (geniale) di fotografie scattate a Nairobi, Caracas, Mumbay o Giacarta e collezionate nello splendido libro di Jonas Bendiksen “The place we live”.
- didascalia: Una mucca si ripara all'ombra nel villaggio Di Kukuro nella RIft Valley, Kenya
- firma: Stefano De Luigi/ VII network
Ora, veniamo al mio rapporto con Photoshop. Una relazione “ambigua”. So che questo software esiste e ne faccio un uso moderato. In fondo, sono sempre stato attratto dalla sperimentazione alla radice della fotografia, in fase di scatto.
Dopo aver lasciato il B/N alla fine degli anni ’90, ho utilizzato diverse pellicole a colori, alla ricerca di un contributo “fondamentale” dei supporti in gelatina che mi permettesse un intervento “post” - in fase di stampa - minimo. Questa pratica mi ha portato anche a sperimentare l’errore tecnico indotto dall’inversione di sviluppo (C-41- E6), che si usava molto nella fotografia di moda. L’ho introdotto nel reportage, con il lavoro sul mondo del porno. Quei colori acidi mi servivano a restituire la violenza e il grottesco di quegli ambienti. Il mio rapporto con il post-produttore quindi era, ed è ancora oggi, impostato ad uno scambio di informazioni e competenze che aiutino a conseguire un risultato ben preciso che io identifico “prima” dello scatto. Per un lavoro sulla siccità, che ho realizzato ultimamente in Kenya, ho impostato la macchina in modo da rendere i file leggermente sottoesposti e desaturati, di modo che poi, in fase di post-produzione, fosse possibile lavorarli per poter restituire l’impressione del gran calore, di luce abbagliante e arsura, di siccità estrema e stordimento, al quale uomini ed animali erano sottoposti in quella situazione.
Il mio Photoshop si riduce quindi a una serie di indicazioni “impressioniste” ai post-produttori (con i quali però lavoro da circa dieci anni), successivo alle impostazioni tecniche che dò alla macchina. Questo tipo di operazioni era possibile anche prima in fase di stampa. Forse adesso il ventaglio di possibilità è più ampio. Il servizio ora è più accurato, ma questo è un segno della rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo più che di un impero di Photoshop sul fotogiornalismo.
Io seguo il mio istinto. Cerco di evitare il “dipingere”, anche se sono incorso in errori di sovraccarico cromatico e colorazione eccessiva, soprattutto all’inizio. Ho sempre cercato, però, di continuare a distinguere la cifra del mio lavoro cercando una coerenza nei temi e nello stile. Questo porta evidentemente ad essere più esigenti, e anche più prudenti, nelle operazioni di post-produzione.
Credo comunque che la sperimentazione, senza avere paura di Photoshop, debba avvenire prima di portare le proprie fotografie in laboratorio o di mettersi davanti al computer per lavorarle da sé. Photoshop dovrebbe essere usato come un catalizzatore di potenzialità emotive ed estetiche che la foto esprime comunque già, in sé.