Qui si parla di un capolavoro. Si tratta di Prison Valley, web documentary realizzato da David Dufresne e Philippe Brault (fotografo), due ex giornalisti del quotidiano francese Libération. Un’inchiesta condotta a Cañon City, cittadina del Colorado (USA), che - con i suoi 36.000 abitanti e le sue 13 prigioni - viene presa ad emblema dell’industria delle carceri private. Un luogo dove il 16% della popolazione è costituita da detenuti, alcuni dei quali lavorano a due dollari l’ora. Un territorio celebre per la presenza del Supermax, istituto carcerario ritenuto la nuova Alcatraz.
Dufresne e Brault ci accompagnano lentamente tra paesaggi, personaggi ed atmosfere di un paese che vive sull’indotto degli istituti di pena. Riprese video, fotografie, grafica, audio, montaggio, grafica web, interattività sono utilizzati al meglio e raggiungono altissimi livelli qualitativi. Ogni inquadratura è perfetta, ogni movimento di macchina sembra il migliore possibile, la definizione delle immagini è ineccepibile, il passaggio o la convivenza tra un fotogramma e l’altro sono scorrevoli e ben ritmati. Per non parlare dei contenuti giornalistici che risultano ricchi e approfonditi, grazie a testimonianze, interviste e voci fuori campo. Un anno e mezzo di lavoro più che accurato da parte di due giornalisti che, oltre a una mezza dozzina di riconoscimenti, si sono meritati il premio France24-RFI Web Documentary Award consegnato a Perpignan durante il festival di fotogiornalismo Visa pour l’Image 2010.
Come succede spesso di fronte ad ogni capolavoro però viene voglia di andare a cercare il pelo nell’uovo e ogni piccolo difetto viene amplificato dalla perfezione del tutto. Nel caso di Prison Valley è difficile trovare qualcosa che non va nel particolare, ma a livello più generale sì. Prison Valley è - e si autodefinisce - un web documentary, cioè un prodotto progettato per essere fruito sul web sfruttando al massimo le potenzialità del mezzo. Per definizione dunque ha il suo punto caratterizzante nell’interattività: allo spettatore (o navigatore o internauta, che dir si voglia) si offrono numerosissimi spunti e momenti di approfondimento. Si può seguire il percorso del film oppure fermarsi e aprire nuovi contributi. Pulsanti, link, pop up, animazioni compaiono frequentemente e indirizzano il fruitore verso documenti, immagini, audio, forum con altri utenti. Per il navigatore sono come i canti delle sirene: è difficile resistervi. Sono attraenti ma - una volta ascoltatili e fattisi convincere - fanno deviare dalla strada principale del film, rallentano (o accelerano) la scorrevolezza della narrazione e spesso fanno perdere il filo. Arrivo a dire che fanno innervosire perché le informazioni che aggiungono non sono sempre significative e talvolta paiono solo un espediente per esibire un certo virtuosismo grafico. A questo si aggiunga la durata: 59 minuti il solo documentario (lunghezza già di per sé inusuale per un qualsiasi contenuto da pubblicare sul web) a cui si deve sommare il tempo per la registrazione sul sito (obbligatoria, ma sostituibile con un login a Facebook o Twitter) e quello per la consultazione dei contenuti extra. Insomma, in un paio d'ore, con impegno e concentrazione, si potrebbe arrivare a vederselo tutto, apprezzandolo.
Tutto questo è troppo.
Chi può permettersi di stare due ore davanti ad un computer per vedere leggere ascoltare un web-documentary? Chi ha strumenti, conoscenze di navigazione su internet e pazienza per apprezzare l'intero lavoro, non a caso definito di slow journalism?
Il timore è che solo pochi eletti riescano a farlo, che l'inchiesta giornalistica del futuro invece di allargare il bacino di utenza lo restringa, che diventi un elite-media invece che un mass-media.
Il giornalismo dovrebbe adottare un linguaggio universale, Internet è stato da sempre considerato uno dei mezzi più democratici a disposizione dell'intera umanità, ma la combinazione dei due elementi spesso fa pensare che tutto ciò sia stato solo un'illusione.
E' possibile che un alto livello creativo e professionale non sia capace di inventarsi un metodo di fruizione multimediale ma più popolare, senza necessariamente arrivare al nazional-popolare? Oppure è il mezzo stesso che – per sua natura - può rivolgersi soltanto ad un certo target? O semplicemente dobbiamo pensare che qualsiasi capolavoro – qual è Prison Valley – fatica a farsi riconoscere come tale e a farsi accettare dal grande pubblico? O ancora più banalmente è la mia opinione ad essere fuori luogo?
Qualcuno che ha visto lungo c'è, anzi più di uno mi smentisce: Prison Valley è costato infatti circa 230.000 €, ed è stato finanziato dal canale televisivo Arte (70.000 €), dallo studio di progettazione multimediale Upian (70.000 €) e dal CNC, Centre National du Cinéma (90.000 €), consentendo ai due autori di avere un guadagno di circa 30.000 € a testa (per un anno e mezzo di lavoro negli Stati Uniti, ricordiamocelo) esclusi i futuri diritti d'autore (utilizzo in tv, pubblicazione di un libro.versione per iPad). Finanziatori, gente che ci ha creduto e ha rischiato, probabilmente con successo e offrendo una possibile soluzione alla mia visione pessimistica. Inoltre David Dufresne ha dichiarato: "Gràce au web, on a de l'espace, on prends du temps, et on obtient plus d'informations" (grazie al web abbiamo spazio, ci possiamo prendere più tempo e otteniamo più informazione). Verissimo, e spero che molti ne traggano beneficio. Spero davvero che queste inchieste non se le vedano solo gli operatori dell'informazione o gli addetti ai lavori, finendo per tornare a casa con tante pacche sulle spalle ma sempre in quattro gatti. In questo momento di capolavori come Prison Valley c'è bisogno, e dovrebbero uscire dalla nicchia per arrivare a tutti.
Fonti