Finding Vivian Maier

  • didascalia: Vivian Maier
  • firma: Autoritratto non datato
  • fonte: Courtesy of Maloof Collection

Prendete un po’ di Henri Cartier-Bresson, Robert Frank, William Klein, Lisette Model, Weegee, Bruce Gilden, ma anche Diane Arbus e forse un’altra mezza dozzina di geniali fotografi ed eccovi servito il più che copioso lavoro di Vivian Maier.

Strano personaggio davvero, bambinaia e donna di casa, riservata fino a toccare punte patologiche, vive tra New York e Chicago per più di quarant’anni ed in quasi mezzo secolo non fa altro che fotografare. La sua passione produce qualcosa come 100.000 negativi, oltre a diapositive e svariati km di film in 8 e16 mm che tornano alla luce per un caso, durante un’asta pubblica. Il tutto è raccontato da John Maloof, colui che ha scoperto questo tesoro in un sito (www.vivianmaier.com) ad essa dedicato ed in un film/documentario (Finding Vivian Maier) da poco uscito, che cerca di ricostruire la vita dell’autrice attraverso gli indizi che ha lasciato e le testimonianze delle persone che l’hanno avuta a servizio.

Non mi dilungo troppo sulla sua vita e vi invito a scorrere i due siti segnalati e soprattutto a vedere il film. La parte inquietante della storia è che se non fosse stato per questo fortuito ritrovamento, per l’intuizione ed il lavoro di John Maloof non avremmo mai saputo di Vivian Maier e del suo straordinario corpus di street photography, perché in quarant’anni di lavoro su questo fronte la Maier non ha mai mostrato una sola foto a nessuno, tantomeno le è passato in mente di trasformare questa passione in un mestiere.

Non era quello che voleva.

  • firma: Vivian Maier
  • fonte: Courtesy of Maloof Collection

Gli anni ’50 e ‘60 sono gli anni nei quali la fotografia di strada americana matura e si trasforma, detta legge e si diffonde. William Klein pubblica “New York 1955”, un sorta di testo sacro che stravolge tutte le regole della narrativa a cui tutti dobbiamo qualcosa; “The Americans” (di Robert Frank) è del 1958, gli anni d’oro di Weegee vanno dal 1947 alla fine degli anni ’60, da qui alla fine degli anni ‘70 troviamo il lavoro di Diane Arbus.

Potrei andare avanti ancora per molto a citare frammenti, somiglianze e approcci che si ritrovano nelle immagini della Maier. Potrei arrivare anche paradossalmente a ritrovarci i ritratti di strada di Bruce Gilden ed ancora rimane il tarlo di capire se avesse studiato a fondo i fotografi a lei coevi o se era quella la naturale ed unica possibile via di rappresentazione del mondo che le interessava.

Il B/N aiuta e fa il suo corso nella narrazione, evita le distrazioni; la Rolleiflex ci mette del suo ad entrare discreta nel mondo altrui carpendolo con un soffio. Lo stordimento sta proprio nel trovare nelle immagini di Vivian Maier intatto quello che avevamo già visto (ed anche imparato) da altre parti ed in altri libri ciò nonostante rimanere affascinati e sorpresi da tanta freschezza, quasi a riconferma che quella fosse la strada giusta da percorrere.

Era curiosa, impassibile, aveva una sua missione e lo si vede dall’imperturbabilità nel riprendere gli spossessati, gli ultimi, caccianasare nei cestini dei rifiuti alla ricerca di tracce, segni di umanità, ma anche riprendere Kirk Douglas all’uscita della prima di “Spartacus”. Il suo lavoro era tecnicamente ineccepibile ma tutte quelle tracce le voleva per sé, non sentiva il bisogno di consegnarle ad altri per raccontare. Non era quello il fuoco sacro che voleva alimentare e in tutta la sua vita non ha mai pubblicato nulla (era un’accumulatrice compulsiva, malata, di tutto, di giornali in primis).

Nel film, in una delle registrazioni ritrovate, ad un certo punto dice: ”… mi porto dietro la mia vita e la mia vita è nelle scatole - is in boxes”. Si considerava una “spia”.

La maggior parte dei suoi ritratti sono riflessi su altri oggetti, la sua ombra che si proietta nel mondo, quasi a rimarcare di vivere attraverso gli istanti degli altri, tutti, indiscriminatamente, perché non aveva un soggetto prediletto da indagare, ma lo faceva sempre con lo stesso garbo con cui ritraeva un barbone, una coppia di passanti o un piccione, per poi inscatolare o addirittura neanche sviluppare il rullino (Maloof ne ha ritrovati a migliaia).

A pensarci bene tutto questo ben si accordava con il lavoro che si era scelta: bambinaia, donna di casa, al servizio delle vite degli altri: riempita una scatola la chiudeva e ne apriva un’altra: innumerevoli infatti le famiglie per cui ha lavorato

  • firma: Vivian Maier
  • fonte: Courtesy of Maloof Collection

Perché osservare quadrati di vita altrui per poi rinchiuderli dentro scatole?

Non è per questo che la fotografia nasce. Non c’era un ego da nutrire, tantomeno una “missione” come spesso affermano i fotografi. E forse c’era molto da lenire: questo “molto” ci sarà negato per sempre. Maloof racconta che all’inizio della ricerca digitando il nome Maier sul web non usciva alcunché: ora invece lei non sarebbe felice di sapere che il suo nome produce 9 milioni e 700 mila risultati. Ottima nemesi storica per una che pretendeva che nessuno mai entrasse nella sua stanza.

Ci rimane una narrazione straordinaria di vita altrui sulla quale storici e curatori dovranno affaticarsi per anni a venire ed il suo viso fresco negli autoritratti, un po’ mascolino, che ricorda molto Isabella Rossellini.

Nota a latere: code chilometriche per la proiezione di “Alla ricerca di Vivian Maier” nei primi giorni di programmazione: difficile assistere senza prenotazione.

Buon segno: grazie a Forma per l’intuizione e per aver portato il film a Milano.

 

NDR: mentre pubblichiamo questo articolo la proiezione del film continua in alcuni cinema (a Milano e Trieste). Quando la programmazione sarà esaurita dovrebbe cominciare la distribuzione per la visione privata.