Cinque famose fotografie di Brandt, Cartier Bresson, Doisneau, Stieglitz e Strand sotto la lente d'ingrandimento semiotica di Jean-Marie Floch. Per una volta non siamo di fronte alla ricerca di una presunta “essenza” della fotografia, come siamo stati abituati da Barthes ed epigoni, ma al tentativo – ben riuscito, anche se ancora in evoluzione – di interpretare l'immagine fotografica come il testo prodotto da un linguaggio. Che si tratti di un simbolo, di un analogon o di un indice fa poca differenza: ciò che importa è la sua forma, ovvero la capacità di significare, di veicolare il senso, di comunicare. Sebbene si tratti di un testo di semiotica ricco di termini da addetti ai lavori, la sua comprensione è facilitata da una serie di note che chiariscono i concetti più ostici per chi ne sia totalmente digiuno. Inoltre la postfazione di Luisa Scalabroni (semiologa dell’Università di Palermo che ha curato anche la traduzione del volume) in venti paginette ripercorre tutta la storia della semiotica della fotografia: un'utile sintesi per chi non si voglia avventurare nella lettura dei relativi volumi usciti negli ultimi cent'anni anni.
Questo saggio, nonostante sia uscito in versione originale francese nel 1986, è ancora oggi una lettura che può dare uno spunto di riflessione interessante sui meccanismi nascosti che presiedono alla produzione di senso nell'immagine, di qualunque tipo essa sia.
Volendo si può leggere anche la recensione che Luca Malavasi ne ha fatto sul Manifesto.