Dalla forza dirompente delle immagini delle torture di Abu Ghraib, dalla loro imprevista e incontenibile potenza parte l’analisi di Fiorentino, che in sei capitoli e 144 pagine delinea il rapporto della fotografia con l’indicibile, con l’orrore, con la rappresentazione della guerra nel suo eterno relazionarsi con diversi linguaggi dalla storia dell’arte alla cronaca. Ogni fotografia si confronta contemporaneamente con tutta la storia dell’arte e con tutte le fotografie venute prima ma anche con la cronaca, con il racconto quotidiano che scorre sui media di tutto il mondo incessantemente per 24 ore e di cui è una protagonista sempre più imprescindibile. Nel saggio Fiorentino riporta episodi e aneddoti, parla di molte fotografie fatte, quelle che hanno segnato le diverse epoche, ma soprattutto delle fotografie non viste, delle immagini che probabilmente non vedremo mai di eventi visivamente mai raccontati: la prima guerra in Iraq di cui rimangono solo le immagini di lampi nella notte di Baghdad, una guerra chirurgica si disse, sicuramente asettica: guerra senza morti senza dolore senza sangue, come la guerra di Putin in Cecenia o d’Algeria o il conflitto di Timor Est o i gulag sovietici. Poi c’è l’immagine manipolata, ovvero la storia ricostruita, la staged photography che si fa fotogiornalismo: dall’assalto al Palazzo d’Inverno completamente ricostruito ai ritratti dei capi bolscevichi sotto il regime staliniano con i rivoluzionari che sparivano e riapparivano secondo l’andamento delle purghe, eccetto Trotsky scomparso per sempre dall’iconografia ufficiale sovietica. Guerra messa in posa, così Fiorentino definisce le immagini della prima guerra fotografata della storia, la guerra di Crimea ripresa Roger Fenton. Questa iconografia prosegue più o meno inalterata, da Gardner e O’Sullivan alla prima guerra mondiale, per altri 50 anni fino alle sconvolgenti immagini della guerra civile spagnola, lo spartiacque per la fotografia di guerra, grazie a Robert Capa, forse il più grande fotografo di guerra di sempre. Parallelamente alla fotografia ufficiale ne circola da sempre una privata, non destinata al pubblico: il nobile Messerotti Benvenuti al seguito delle truppe occidentali in Cina durante la guerra dei Boxer ritrae l’estremo oriente con tutti i pregiudizi di un occidentale dell’epoca, e di fronte al dolore e all’orrore degli altri, nel senso di altri dalla cultura occidentale, dichiara serafico di non provare dolore di non vedere l’orrore. Così è stato sempre, anche gli aguzzini nazisti fotografavano le loro vittime, anzi la fotografia, forma di appropriazione e di dominio, risulta essere l’estremo sfregio, nell’annullamento dell’identità del prigioniero, vera e propria tortura, e per questo spesso avallata dalle autorità militari. La fotografia è anche anestetico per chi violenta che mette tra sé e l’altro il filtro dell’obiettivo. Con Abu Ghraib succede l’imprevisto, ma prima o poi inevitabile: uno scherzo tra militari esce dal circuito per cui era stato pensato e irrompe nel sistema dei media, che infatti in un primo tempo non sa come reagire, la CBS nicchia per qualche giorno, poi decide di trasmettere le immagini che daranno il colpo mortale alla credibilità della guerra tanto voluta dall’amministrazione americana. Da quel momento nessuna delle ragioni per cui si stava combattendo avrebbe più avuto alcuna rilevanza.
Il racconto prosegue, si analizzano fotografia e racconto, fotografia e cinema, fotografia e pubblicità fotografia e radio. I diversi linguaggi che si mischiano e si accostano i punti di contatto e i contrasti insanabili. Si trovano così accostati in questa affascinante indagine aneddoti più o meno noti, la nascita della Magnum e i dubbi di George Rodger, le analisi di Susan Sontag e Walter Benjamin, la visione del fotoreporter ne La finestra sul cortile di Hitchcocke il significato della fotografia nei film Smoke di Wayne Wang, o ne Il favoloso mondo di Amelie di Jean Pierre Jeunet. Così infine la natura della fotografia, mezzo che funziona per silenzi e sottrazioni e che si muove, meno eclatante e visibile, all’ombra della più rumorosa televisione, ha sempre funzionato parallelamente al circuito ufficiale: dentro il linguaggio ufficiale e sotto ad esso o ai suoi margini, nelle cartoline, nelle foto ricordo nella fotografia oscena. Queste caratteristiche sono esaltate dalla rete, che dunque non modifica lo statuto della fotografia, anzi si adatta perfettamente ad essa. Nel finale si torna all’attualità della seconda guerra in Iraq, questa volta alle foto della signora Tami Silicio, impiegata di una società alle dipendenze del Pentagono, e alle immagini delle bare avvolte nelle bandiere a stelle e strisce di ritorno dall’Iraq.
Federico Della Bella