“Con la primavera a centinaia di migliaia, i cittadini escono la domenica con l’astuccio a tracolla. E si fotografano. Tornano contenti come cacciatori dal carniere ricolmo, passano i giorni aspettando con dolce ansia di vedere le foto sviluppate […], e solo quando hanno le foto sotto gli occhi sembrano prendere tangibile possesso della giornata trascorsa, […]”.
Così inizia “Avventura di un fotografo”, uno dei racconti di Calvino inseriti nella raccolta “Gli amori difficili”, che narra dell’avvicinamento e del rapporto ossessivo che il (inizialmente) non-fotografo Antonino Paraggi instaura con il mezzo e con la filosofia della fotografia. Dall’iniziale fastidio passerà in breve a una frequentazione e a un utilizzo quasi maniacali, sopraffatto dalla sproporzione tra le smisurate capacità del mezzo e le possibili realizzazioni pratiche.
Se in principio al centro del racconto c’è il mondo amatoriale e l’analisi del rapporto paternità-fotografia — in un’epoca in cui erano essenzialmente i padri di famiglia a dilettarsi con la fotografia, ancora ostile per ragioni tecniche, economiche e sociali a pubblici più vasti — nelle successive e più avanzate riflessioni e sperimentazioni del protagonista altre più raffinate risposte verranno date alla domanda fondamentale “perché la gente fotografa?”, come si chiedeva anche Robert Adams in un suo famoso saggio. La risposta è facile per i fotoamatori del racconto: i padri fotografano i figli, i mariti le mogli, gli escursionisti le vacanze e il fine è la semplice certificazione dell’avvenuta esperienza. Ad Antonino questa fotografia idillica e apologetica sembra ideologica, perché tramite queste scelte si elimina dall’esistenza la bruttezza e l’imperfezione che hanno invece molto a che fare con il reale.
Al limite, secondo Antonino, tutto è degno di essere fotografato e conseguentemente bisognerebbe costringersi a vivere per fotografare, scattando migliaia di foto, giorno e notte. La tentazione di costruire un catalogo fotografico del reale è sempre esistita, e così fece Albert Ranger-Patzsch con “Der Welt ist schoen” nel 1928, e in maniera diversa tutti coloro che hanno fatto della catalogazione il loro modo di fotografare e guardare la realtà, magari restringendo l’interesse a un solo tipo, come i Becher con l’archeologia industriale.
Con una forma di follia o di nevrosi o semplicemente con un desiderio sempre inappagato di scattare e fermare la realtà si è drammaticamente scontrato Gary Winogrand, che ha trascorso gli ultimi anni di vita scattando migliaia di foto, senza neppure svilupparle, mentre all’opposto il perfezionismo maniacale impedì per mesi a Eugene Smith di interrompere i sopralluoghi preliminari di Pittsburgh e iniziare a fotografare.
Scartando decisamente l’istantanea, solo il ritratto in posa sembra offrire ad Antonino la possibilità di raccontare qualcosa di autentico del proprio tempo e dei soggetti ritratti: “Il gusto della foto spontanea naturale colta dal vivo uccide la spontaneità, allontana il presente. […] Credere più vera* l’istantanea che il ritratto in posa è un pregiudizio”.
Rifiutare la fotografia naturale l’istantanea non è scontato per un fotoamatore, meno che mai decidere di ritrarre i propri modelli con scenografie allestite pensando alle carte-de-visite di metà ottocento. Sul set Antonino sperimenta un altro modo di fotografare, che lo avvicina a Sander, che metteva in posa proprio per ritrarre più efficacemente i suoi tipi sociali, e perfino alla staged photography delle ricerche più contemporanee, facendone una sorta di precursore dei vari Crewdson, Wall, Sherman, tanto che Bice, modella poi moglie, viene messa in posa con tanto di racchetta da tennis. Ma Bice presto si spoglia e Antonino si cimenta con il nudo, un genere che, con fortune alterne, ha accompagnato la fotografia dalla sua nascita.
Una volta sposati, Antonino, incapace di un rapporto normale con la donna e con la fotografia, fa di Bice il suo unico soggetto, come spesso i fotografi hanno fatto, magari non in maniera così rigidamente esclusivistica, con le proprie amanti: Harry Callahan con Eleanor, Stiglitz con Georgia O'Keeffe ed Edward Weston con Charis.
Lasciato dalla moglie, che non capisce e non si adatta a questa follia, Antonino fotografa la sua assenza e si abbandona a una fotografia diaristica, ritraendo l’interno della propria casa, sempre più disordinata, sempre più precaria.
Passando dal disordine del letto alle macchie sul muro, per arrivare alle fotografie di vecchi giornali, Antonino trova l’unico tipo di fotografia che lo appaga, quella che riproduce altre fotografie.
Le foto sui giornali lo turbano profondamente per la loro distanza dal mondo del fotografo dilettante e per il rapporto che si crea fra il suo obiettivo e quello di reporter lontani: “Vuol dire che solo lo stato d’eccezione ha un senso? — si domandava Antonino. — è il fotoreporter il vero antagonista del fotografo domenicale? I loro mondi si escludono?”.
Con questa riflessione termina il racconto in cui Calvino parla di fotografia, dimostrando un’ottima conoscenza della cultura e della critica fotografica e perfino del mezzo, se si esclude il passo in cui parla di “sensibilità di un diaframma”, essendo la sensibilità un parametro per misurare la reattività delle pellicole alla luce.
Qualche riferimento in rete per “Avventura di un fotografo”
Il racconto di Italo Calvino è stato analizzato e studiato da diverse angolazioni, di seguito alcune riletture:
Una lettura offerta
da Rosa Maria Puglisi su Cultframe
Un’altra
di Martino Negri
La lettura del racconto
su fotologie.it
Nel 1984 il regista Francesco (Citto) Maselli ne ha fatto un film per la televisione.
Un’associazione fotografica di Treviso, con un proprio spazio espositivo (
www.spazioparaggi.it), ha preso il nome dal protagonista del racconto, Antonino Paraggi.
Infine su abc- fotografie si può trovare
il racconto integrale