50 anni di fotogiornalismo con gli occhi dei lettori. Mary Panzer e Christian Caujolle ci mostrano i servizi e le storie più significative di 5 decenni, attraverso le riproduzioni delle pagine dei giornali su cui vennero pubblicate e per cui furono fatte. Nel tempo le stesse fotografie sarebbero state viste in altri contesti, con la conseguente aggiunta di senso e significati. Vederle in pagina significa tornare all’utilizzo originale, significa guardare la fotografia insieme alla grafica, al testo, all’impaginazione, con cui furono pensate, commissionate e scattate.
Il libro si apre e si chiude, significativamente, con 2 servizi di Paris Match. Il primo, pubblicato in due diversi numeri tra gennaio e febbraio 1955, è il famoso reportage di Henry Cartier-Bresson “Gente di Russia”, l’ultimo, a cavallo tra 2004 e 2005, riguarda lo Tsunami che ha colpito il sudest asiatico nel dicembre del 2004 e contiene sia le immagini scattate dai sopravvissuti al maremoto, che reportage fatti da professionisti. Con lo scorrere del libro si percorre la storia della fotografia, del giornalismo e della comunicazione: dall’era in cui la fotografia aveva ancora un’aura, e autori come Cartier-Bresson sembravano gli unici in grado di comunicare per immagini la realtà, la vita quotidiana, i grandi avvenimenti, a quella in cui tutti sono potenziali giornalisti, dotati di strumenti di riproduzione che permettono al mondo di vedere anche fatti avvenuti in assenza della stampa, attraverso lo sguardo dei testimoni diretti. La postfazione di Caujolle mette a confronto le due successive copertine di Paris Match dedicate allo Tsunami, rispettivamente l’ultima del 2004 e la prima del 2005: in una si vede un’immagine quasi irriconoscibile del maremoto scattata da un turista, nell’altra il duro e diretto racconto di Philip Blekinsop, da cui emerge il differente livello di approfondimento e qualità. Caujolle chiude con l’auspicio e la prefigurazione di una nuova estetica, in cui le due fonti, usate appropriatamente, si fondano. L’ipotesi di fare a meno dei fotogiornalisti si dimostra una pia illusione, magari auspicata da editori in vena di tagli e risparmi, ma del tutto inadeguata a un racconto serio e approfondito. Sempre che l’editoria non decida di suicidarsi e abdicare del tutto al proprio ruolo, optando, populisticamente, per demandare il racconto fotografico del mondo ai citizen journalists, ai dilettanti, senza adeguata preparazione professionale, estetica, culturale, etica.
La serie dei reportage citati testimonia la capacità della fotografia di fondersi con la parola la grafica l’impaginazione e di creare un’interpretazione del mondo di volta in volta affascinante, dura, coinvolgente, commovente, realistica, misteriosa. La varietà dei registri e il costante aggiornamento dei linguaggi dimostrano una grande vitalità del linguaggio, che mette in discussione la mille volte preannunciata morte del fotogiornalismo, certificata anche da illustri studiosi. La lettura e lo studio del libro ricorda anche che solo nel ripensamento e nella messa in discussione dei modelli acquisiti ci può essere un’evoluzione, che tenga conto della trasformazione della società, dei mass media, della tecnologia, della sensibilità e ricettività del pubblico. Dal reportage molto descrittivo, con ambizioni quasi enciclopediche e definitive, alla Eugene Smith, ci si è spostati verso racconti sempre più personali, a volte quasi diaristici, da Gilles Peress fino a Diane Arbus. Il reportage ha poi subito una forte spinta innovatrice grazie alla contaminazione con altri linguaggi e altre sensibilità, dalla moda, alla pubblicità, all’arte. Diversi esempi nel libro segnano la tendenza: le incursioni giornalistiche di Richard Avedon, memorabile il suo “The Family” su Rolling Stone del 1976, la visione pubblicitaria di Elaine Constantine, che su Face nel 1997 documenta, ricostruendolo e mettendolo in scena, il fenomeno del Moshing (ballo collettivo in cui i partecipanti si lanciano uno addosso agli altri o addirittura surfano sopra la folla, ai concerti punk e alternativi), la visione dell’Afghanistan devastato da decenni di guerre, compresa l’ultima scatenata dagli USA e dalla coalizione internazionale nel 2001, offerta sulla rivista alternativa e trasgressiva Foil dall’artista giapponese Rinko Kavauchi, Quando nel 1979 Helmuth Newton torna a Berlino per Vogue, firmando la sua personale visione della città nel racconto Berlin, si fondono il linguaggio dell’arte e della moda, dell’erotismo - rappresentati dalle modelle, fatte posare sui luoghi dell’infanzia berlinese del fotografo, che abbandonò la città e la Germania negli anni 30 a causa delle leggi razziali - la riflessione storica e personale, nello stridente contrasto tra la città di allora, capitale del Terzo Reich e luogo dell’infanzia del fotografo, e quella del presente, divisa dal Muro e dalla nuovo guerra ideologica, in cui l’ex esule torna, con un bagaglio di conoscenze ed esperienze necessariamente contaminate dalla moda e dalla società dei consumi.
Panzer e Caujolle accostano pubblicazioni autorevoli a magazine di nicchia, alternativi o di tendenza, in cui si fondono con naturalezza diversi linguaggi. Da Colors, al giapponese Provoke, al già citato Foil, a Face, a W. E poi ancora magazine di Paesi certamente non ritenuti all’avanguardia nel panorama giornalistico e fotografico mondiale: dall’Australia, al Brasile, alla Polonia, al Sudafrica. Un viaggio dunque che sa allontanarsi anche dai centri del fotogiornalismo, francesi, anglo-sassoni e “impegnati”, che ne costituiscono comunque la spina dorsale, esplorando altri paesi e pubblicazioni non immediatamente identificabili con il genere giornalistico.
Un libro che stupisce e appassiona, da studiare e da consultare, fondamentale per chiunque si occupi di fotografia, giornalismo o comunicazione.
Federico Della Bella