Interviste sulla fotografia: 1. Stefano De Luigi

Le altre interviste

Questa intervista risale a maggio 2007. Qualche mese prima Stefano De Luigi aveva vinto un premio al WPP, mentre un paio di mesi più tardi avrebbe presentato con successo un cortometraggio al Festival del Cinema di Locarno. Nel frattempo i diversi progetti di Stefano sul cinema, sulla televisione e in generale sul mondo della rappresentazione sono andati avanti. All’epoca De Luigi faceva parte dell’Agenzia Contrasto, dove era stato uno dei fotografi di punta per diversi anni. Qualche mese dopo sarebbe entrato a far parte del network di VII.

Nell’intervista si analizza il percorso professionale e artistico di Stefano De Luigi, i temi a lui più cari, il rapporto con i committenti e in particolare il progetto, poi diventato un libro, Pornoland.

Analizzando il tuo lavoro ho riscontrato due grossi campi di indagine: anzitutto il mondo della rappresentazione, della finzione, che raccoglie lavori come Pornoland, l’indagine sulla moda, sulla televisione e un altro sociale che ha documentato l’emarginazione, la malattia, la sofferenza, come nel bellissimo Cecità. In entrambi i casi mi pare tu abbia concentrato il tuo interesse su comunità chiuse. Tra l’altro il reportage Kalinigrad racconta la vita di una enclave russa in territorio europeo staccata dalla madrepatria.

Sì e no. È vero che molti dei miei lavori e dei soggetti che affronto riguardano delle comunità. Credo faccia parte del percorso di apprendistato e di coscienza del proprio modo di operare, definendo sia i soggetti e i temi di interesse, sia la modalità di esprimerli. Lavorare a dei progetti, anche per anni, avendo il tempo di approfondire credo sia una caratteristica di tutto il mio lavoro, che nasce da sensibilità personali. È importante definire con chiarezza, prima di tutto a sé stessi, una modalità congeniale di operare.

In questo senso credo di rendere al meglio all’interno di comunità, perché stando all’interno di una comunità definisco il mio ruolo attraverso il confronto con gli altri. E il mio ruolo è ovviamente quello del fotografo.

Nel corso degli anni, attraverso diversi lavori, ho sperimentato situazioni molto diverse: dal reportage sociale, alla guerra, dal racconto dell’attualità e della vita quotidiana di un Paese in una fase delicata della propria esistenza allo studio di un problema o di un ambiente circoscritto. Dopo varie esperienze ho capito di essere più bravo a raccontare trovandomi in comunità chiuse, perché dentro a queste comunità riesco ad essere più attento e a definire meglio e più in profondità le questioni di interesse.

Per una questione caratteriale probabilmente l’essere riconosciuto e accettato come fotografo mi permette di fare meglio il mio lavoro.

Alcuni dei tuoi lavori sono legati a missioni e a progetti più ampi, costringendoti a una collaborazione stretta con altre organizzazioni, penso alla Christian Blind Mission e al progetto di Medici Senza Frontiere in Siberia. Qual è stata la tua relazione con queste organizzazioni durante il lavoro? Come si inserisce la fotografia all’interno di questi progetti così ampi?

Riferendoci ai progetti sociali, chiamiamoli così, ti posso dire che Cecità ha avuto una valenza particolare ed essendo un fotografo anche una sfida intellettuale, dovendo descrivere una realtà così lontana e difficile da comprendere per tutti e a maggior ragione proprio per un fotografo che, per lavoro, oltre a vedere deve guardare e far guardare gli altri. Il lavoro in Siberia ho voluto farlo perché mi interessava il progetto e ho trovato l’accordo con la mia agenzia (Contrasto) e con Medici Senza Frontiere. Da un po’ di tempo ho la fortuna di poter scegliere i progetti da seguire, cosa che considero un vero privilegio.

Negli anni ha collaborato con realtà e committenti molto diversi, dal Museo del Grand Louvre ai giornali italiani e del mondo. Vorrei sapere che tipo di rapporto hai instaurato con i diversi committenti.

Sicuramente il rapporto è cambiato molto nel tempo perché sono diventato più sicuro di me stesso e del mio lavoro e quindi, molto onestamente, se 15 anni fa, entrando nella redazione di Liberation, sudavo per parlare con il photoeditor, adesso riesco a gestire i rapporti con la committenza in modo un po’ più sciolto. Intorno al 1999 c’è stata una piccola svolta nel rapporto con i giornali, perché lì ho capito che il grande rischio è quello di interpretare i desideri dei committenti prima ancora che vengano espressi, pensando magari all’impaginato, limitando così moltissimo le proprio scelte. Da allora ho iniziato a scattare provando in un certo senso a dimenticarmi dei committenti, mi sono in sostanza ripreso la mia libertà. Diventando più egoista dal punto di vista della produzione, sono diventato anche più libero e paradossalmente più interessante per la stessa committenza.

I tuoi interessi mi pare ti abbiano portato da ricerche più classicamente foto-giornalistiche a temi più a lungo termine, avvicinandoti all’arte. Inoltre oggi il tuo nome è sinonimo di autorialità, questo preserva la tua fotografia da un utilizzo triviale sui giornali, perché è in questo senso protetta. Tuttavia per moltissimi fotografi non è così e i giornali, che costituiscono lo sbocco naturale di questo tipo di fotografia, non sempre la rispettano e la valorizzano.

Secondo me la fotografia è giustamente interpretabile e questo è anche il suo bello in qualche modo. Questo significa che se si decide di entrare nel mondo dell’informazione, specialmente affidando come ho fatto io l’archivio a un’agenzia, si corre il rischio di vedere le proprie immagini pubblicate insieme ad articoli di cui non si condivide il tono. Devo però dire che nella agenzia in cui sto c’è un’attenzione particolare a non fornire immagini per utilizzi non corretti o discutibili. Da questo punto di vista sono stato abbastanza coccolato, ma non solo io, tutti quelli che stanno in questa agenzia, perché è vero che c’è uno standard di qualità abbastanza alto. In ogni caso se la fotografia è interpretabile bisogna accettare che finisca su supporti e serva a informare o illustrare temi e concetti a cui non si era pensato in partenza, che non erano previsti al momento dello scatto. Devo dirti che non rinnego assolutamente il mio passato di fotogiornalista e non provo nessun imbarazzo per i miei primi lavori, come non mi indigno se alcune mie immagini vengono utilizzate per illustrare dei concetti e dei temi non esattamente aderenti alla ricerca e alla testimonianza che volevo portare al momento dello scatto. Credo che il mio passato di foto-giornalista mi abbia aiutato e sia anzi necessario per tutti i fotografi, tranne per quelli che hanno iniziato in un ambiente artistico, per poter fare poi eventualmente qualcosa di diverso. Dunque se le mie foto piacciono e finiscono sui giornali ad illustrare qualcosa a cui non avevo pensato sono contento lo stesso. Ciò non toglie che la qualità di alcuni lavori vada preservata con un po’ più di attenzione, perché trova la sua naturale espressione in un contesto diverso. Il grosso malinteso è che molti fotografi rinnegano il proprio passato di fotogiornalisti, perché i mondi della foto d’arte e della stampa non dovrebbero incontrarsi mai e in alcuni ambienti si teme non sia considerato chic aver fatto il foto-giornalista. Secondo me pensare di doversi nascondere, rinnegando il proprio passato è un segno di debolezza: io sono molto tranquillo e sereno se, come sta succedendo, alcuni miei lavori diventano un libro o una mostra in una galleria, perché penso che questa sia la mia evoluzione personale, però chiedo che la mia esperienza e la mia storia venga accettata in toto.

Ho letto Pornoland e l’ho trovato molto interessante, duro e divertente da guardare e da leggere e credo che funzioni molto bene, perché per il tempo necessario a guardarlo, ed eventualmente riguardarlo, si entra realmente in un mondo, cosa difficile e rara con un giornale o una rivista. Secondo alcuni il posto più adatt alle fotografie sono i libri, ti chiederei se è questa la modalità privilegiata con cui intendi presentare i tuoi prossimi progetti.

Forse il libro è stato considerato tale qualche tempo fa, probabilmente quando il giudizio che hai riportato è stato pronunciato, anche perché non esistevano altri supporti o altri media che interagissero con la fotografia. Noi viviamo nel 2007 e oggi esistono modi molto diversi per presentare ed esporre le fotografie. Ora il libro rimane un approdo ultimo per un lavoro fotografico che però deve essere adatto a stare in un libro, perché sono pochi i lavori che lo meritano. Ultimamente per diverse ragioni si stampano molti libri che in realtà potrebbero non esserci, che creano confusione. Però è chiaro che il punto di arrivo più nobile per un lavoro fotografico è quello del libro. Posso dirti però che in questi ultimi anni ho notato un fortissimo movimento verso il video, cioè il montaggio a forma di racconto fotografico, di racconto filmico. Io per natura sono abbastanza curioso, mi interessa anche questa nuova strada perché è una sfida. Con tutta la modestia che uno dovrebbe avere però quando usa un mezzo che non conosce. Ma lo stesso avviene anche quando si fa un libro. Ecco un grosso vizio di molti fotografi: non voler mollare mai su nessuna delle competenze necessarie a produrre un libro: così alcuni si improvvisano grafici, editor, scrittori. Con risultati spesso deludenti Secondo me un libro, come anche un video, è il frutto di un lavoro comune.

Oltre alle comunità chiuse nei tuoi lavori c’è un esplicito confronto con la finzione, con la rappresentazione. In Pornoland però in alcuni momenti si instaura un rapporto diretto non con il personaggio della finzione, ma con l’attore, inteso come persona reale, e sono questi i momenti più

affascinanti di tutta la narrazione.

Io cerco di raccontare le persone e le cose per quello che sono, andando oltre l’apparenza e la rappresentazione che vogliono offrire di se. Una cosa che ho capito nel corso degli anni è di avere una certa abilità nell’osservare le persone e, credo di poter dire senza presunzione, in profondità e in poco tempo. Penso di essere in grado di far intuire allo spettatore il carattere e la storia del soggetto mostrandone uno sguardo o un gesto. D’altro canto ho sempre nutrito grande interesse per dei fenomeni sociali in apparenza secondari, perché non ancora entrati nel dibattito pubblico, ma che si sono rivelati sul lungo periodo di interesse generale. Intuirli e parlarne prima degli altri, prima cioè che fossero al centro del dibattito pubblico sui giornali, credo sia stata una fortuna, ma una fortuna che mi sono cercato: così è stato per il progetto sulla televisione come per quello sulla pornografia o per quello sulla moda, in particolare per quella maschile, oggi di grande interesse da un punto di vista sociologico e commerciale, e così credo sarà per il mio progetto attuale sul cinema.

Quello che mi preme raccontare è la rappresentazione di sé stessi, in particolare nel mondo occidentale. I racconti e i lavori di tipo più sociale appartengono invece più al mio passato, mai rinnegato, ma che aveva iniziato a starmi stretto perché costringeva a vedere le cose all’interno di schemi ideologici. In questi ultimi anni c’è stata un’esplosione di creatività nella fotografia, dovuta proprio al crollo delle gabbie ideologiche, retaggio del recente passato. L’indagine sociale, il racconto classico, che una parte rilevante del foto-giornalismo ha intrapreso dagli anni 50 ad oggi, sentivo non mi bastava più e ho deciso di provare altri linguaggi e altri temi. Il foto-giornalista di oggi non è più un militante politico, quindi racconta con meno pudori, con meno limitazioni, mettendo anche qualcosa di se. Mettere se stessi al centro, o comunque dentro al racconto, è comunque un’operazione da fare con cautela, perché il rischio di cadere nell’intimismo e dunque nel manierismo è alto. Però potrei citarti diversi esempi di autori che hanno trovato un ottimo equilibrio tra personale e pubblico.

Il freno ideologico di cui ti parlo si sconta nella scelta dei soggetti e nella scelta della forma, essersene liberati significa avere una grande possibilità di espressione.

Da fotografo hai visto i tuoi reportage pubblicati sui giornali di tutto il mondo. Che impressione hai ricavato della stampa italiana e straniera, in particolare rispetto all’utilizzo della fotografia?

Credo che negli ultimi si stia assistendo a diversi fenomeni, molti dei quali interessanti. In Italia credo siano stati decisivi i supplementi dei quotidiani che hanno promosso una fotografia di qualità e creato un mercato molto vivace. Secondo me il livello è buono, anche rispetto a paesi di più nobile tradizione, i quali, penso soprattutto a Germania e Francia, non stanno attraversando una fase molto brillante. Si può poi discutere, e in parte forse essere d’accordo, con chi sostiene che nel tempo è stata premiata una fotografia più edulcorata, che non disturbi troppo gli inserzionisti. Anche se questo discorso è vero solo in parte: io non credo di fare una fotografia consensuale ma quando presento dei progetti ai magazine italiani ricevo ascolto e attenzione. Se poi pensiamo che il fotografo che più di tutti sta segnando questo decennio è Paolo Pellegrin, che non può certo essere accusato di fare una fotografia consensuale ed edulcorata e che tuttavia ha accesso su magazine come Newsweek o New York Times Magazine, ci rendiamo conto che la situazione è complessa e non certamente peggiore di qualche anno fa.

Per quanto riguarda nello specifico l’utilizzo della fotografia sui giornali italiani devo dire che c’è oggi in Italia una generazione di photoeditor competenti, che non esisteva anni fa. Certo per alcuni aspetti ci sono ancora dei vecchi retaggi, perché anche i quotidiani del terzo mondo firmano le foto. Tuttavia dopo aver vissuto una parte degli anni 80 all’estero quando sono tornato in Italia ho trovato una situazione molto migliorata, tanto che lo status di fotografo si è decisamente alzato. Un tempo il fotografo era quello che si era inventato un mestiere per non spostare sacchi di cemento da 50 kg. Oggi c’è in Italia una percezione della fotografia come atto culturale e artistico, di memoria storica, che ci avvicina a paesi come la Francia e gli USA che nel campo sono tuttora i leader in Europa e nel mondo.

La fotografia digitale ha cambiato il panorama. Da un lato riflessioni di tipo semiotico e filosofico ridiscutono lo statuto stesso della fotografia, dall’altro l’enorme diffusione ha permesso la diffusione di milioni di strumenti di registrazione, una grande possibilità di manipolazione, organizzazione e omogeneizzazione e dato un enorme vantaggio alle immense banche immagini a cui i giornali possono attingere con una facilità un tempo impensabile: accanto ai come colossi Getty o Corbis sono nati archivi a metà strada tra fotoamatorismo e business come Fotolia o I-Stock-Photo, nonché la rete, immenso archivio gratuito. Ripensare il ruolo e il senso del fotogiornalismo diviene una necessità, anche perché la lotta tra i pochi fotografi professionisti e i milioni che posseggono un apparecchio di registrazione per la cattura degli eventi ai 4 angoli della terra è certamente impari. E infatti da Abu Ghraib alla morte di Saddam, dall’attentato alle torri allo tsunami sono state le immagini di amatori a raggiungere il grande pubblico.

Come si deve ripensare il giornalismo in queste nuove condizioni?

Premetto che ho introdotto il digitale nel mio lavoro da circa 1 anno e mezzo e mi chiedo ancora oggi cosa significhi per me fotografare in digitale. La molla è stata la curiosità, anche se non sono un ventenne che conosce solo questo e sono legato alla fotografia analogica, non potevo fingere non esistesse, anche perché mi auguro di avere ancora diversi anni di carriera davanti. Il vero pericolo del digitale è di creare uno sguardo fotografico superficiale e un distacco dal resto del mondo da parte del fotografo. Concretamente quando si lavorava in analogico finita la giornata di scatto si poteva vivere il luogo dove ci si trovava e interagire con gli altri o anche solo starsene in camera da soli a ripensare a quanto fatto, mentre il rischio con il digitale è di dedicarsi la sera alla post-produzione, senza staccare gli occhi dal mirino della macchina o dallo schermo del pc e questo secondo me non è sano. La percezione della fotografia poi non credo che cambi, perché non è cambiato il nostro occhio. Certo le nuove generazioni saranno più abituate a vedere immagini sullo schermo di un computer che su un giornale, perché bisogna prendere atto che i giornali non sono più l’unico mezzo di circolazione della fotografia e a breve potrebbero non essere più neppure il principale. Detto questo l’utilizzo di banche immagini potrebbe portare a un utilizzo piuttosto misero della fotografia, ma ci sarà sempre bisogno di una fotografia di qualità, a patto che esista una comunicazione e un giornalismo di qualità. In ogni caso vedo una considerazione sempre maggiore e vedo nei giornalisti una maggiore competenza, per cui è sempre più raro sentire tra i commenti “Fotografa come Cartier-Bresson”, forse perché conoscendo un paio di autori in più si possono fare riferimenti e collegamenti diversi.

Riguardo alla necessità di ripensare il ruolo del foto-giornalista con me sfondi una porta aperta, nel senso che io ho lasciato il racconto del mondo in presa diretta perché non ci credo più. Perché credo che gli avvenimenti siano ormai a tal punto monitorati da rendere il contributo singolo quasi ininfluente. Al momento mi trovo bene con me stesso nel seguire progetti di lungo periodi non di stretta attualità e credo di riuscire in questo modo a portare avanti dei discorsi anche scomodi e di passare indenne dai controlli. Non so dirti se sia possibile oggi raccontare davvero la guerra in Iraq, perché ho molto rispetto per chi va lì, rischia la vita e ci crede ancora. Credo che ci siano però moltissimi vincoli e impedimenti.

Il racconto del mondo della pornografia credo si inserisca perfettamente in questo tipo di progetti di lungo periodo. Pornoland è un libro molto interessante, che affronta un argomento scivoloso, facilmente stereotipabile, senza indulgenze verso il voyeurismo. Un racconto che analizza il mondo della rappresentazione e racconta un immaginario così presente nelle nostre vite.

Pornoland fa parte del terreno di indagine che mi trova al momento più coinvolto, quello dello studio della rappresentazione, di cui è una puntata. Il tema è certamente interessante ma difficile, scivoloso, un po’ come la guerra, perché da come lo rappresenti racconta subito chi sei. Alcuni temi fotografano l’occhio di chi guarda, la personalità di chi sta fotografando: sono come degli specchi. Ho cercato di rappresentare il porno come un buco nero, dove si entra senza sapere perché si viene attratti nè se si riuscirà mai a uscire in qualche modo e da quale parte. Come i buchi neri attira e possiede un’energia che potenzialmente può essere distruttiva. La pornografia è uno specchio come si legge nel testo scritto di Martin Amis, ed è anche lo specchio delle proprie perversioni, che può far scoprire che le proprie perversioni sono malate. È stata un’ esperienza molto forte, entrare in questo mondo ha significato entrare in un universo parallelo, attraversarlo è pericoloso, perché mette a nudo i limiti e le complessità del proprio essere. Dal punto di vista fotografico ho fatto il paragone con la guerra perché immediatamente salta all’occhio quel si vede, in modo diretto, senza filtri intellettuali o problemi di composizione e tagli. Non ho focalizzato l’interesse sulle star né sull’apparente euforia di un mondo che in realtà è composto al 99% da piccoli granelli di sabbia stritolati da una macchina di produzione che macina vite umane. L’aspetto più interessante è l’umanità che ci vive e che soffre, gode e spera.

Spera di uscirne magari. Le persone che hai incontrato avevano ambizioni differenti?

Tutti avevano ambizioni differenti. Secondo me, senza esagerazioni, quasi tutti quelli che ho incontrato si sono descritti di passaggio nel porno, tutti mi hanno parlato di progetti, presenti o futuri, come attori, produttori o registi di film “veri”. È molto difficile ammettere di fare questo lavoro, tutti si vedevano, o fingevano di vedersi, lì temporaneamente. La rappresentazione canonica che si dà del porno, dove non lo si demonizza, è descrivere un’umanità pagata per fare l’amore, felice del proprio lavoro. Vedere cosa c’era dietro questa superficie di luci e di paillette è stato uno degli obiettivi.

Un fotografo esterno all’ambiente come è stato accolto sui set, spesso degli appartamenti, magari anche semi-clandestini, dove si giravano i film? Che tipo di interazione c’è stata? Il tuo obiettivo era solo uno in più o veniva dato un significato diverso, e quindi una rappresentazione diversa, a alla tua presenza?

Anzitutto le location sono state diverse, spesso si trattava di appartamenti, case o ville. In America in particolare di ville sfarzose sul modello hollywoodiano, per offrire un’immagine glamour meno disturbante. In alcuni casi erano studi per film a luci rosse.

In generale il lavoro non è stato difficile perché sono stato accolto molto bene. Gli attori e le persone delle troupe erano lusingati che un fotografo non di settore fosse lì a fare un lavoro di ricerca su di loro e sul loro lavoro. Il fatto che pubblicassi per giornali non porno era un ulteriore motivo di interesse. Curiosità suscitava anche il mio modo di lavorare, infatti ai loro occhi spesso scattavo in momenti non topici dell’azione e si domandavano, e mi domandavano, legittimamente, il perché di certe scelte. Perché in quel tipo di cinema l’atto sessuale è il momento culminante e fondamentale, il resto puro contorno. Le uniche difficoltà iniziali le ho avute in Giappone, credo soprattutto per un problema culturale: il Giappone è un paese molto lontano da noi e un mondo chiuso come il porno di un paese lontano è lontano il doppio.

Come hanno reagito quelli che hanno visto, se l’hanno visto, il lavoro finale?

Alcuni l’hanno visto; in particolare tra le molte persone che ho incontrato alcune hanno avuto un particolare ruolo per il risultato finale, hanno dato un contributo decisivo. Queste hanno ricevuto il libro e le informazioni sull’andamento del lavoro. Mi sembrava di doverglielo.

Essendo stato in diversi paesi hai colto delle differenze sostanziali o c’è una sorte di internazionale del porno che appiattisce tutte le differenze?

Il sesso è anche una lente di ingrandimento attraverso cui leggere la cultura di un popolo, come la televisione o altre forme di rappresentazione che indagherò in futuro. È anche un po’ il senso di questo lavoro raccontare attraverso il sesso e la sua rappresentazione, la pornografia, la cultura e la storia di paesi diversi, e soprattutto come si vive uno degli atteggiamenti umani più importanti, perché se c’è questo interesse è perché il sesso è fondamentale per l’essere umano. Rispondendo alla tua domanda ho trovato sicuramente delle differenze sostanziali, che ricalcavano a volte anche gli stereotipi dei popoli. Dal punto di vista della curiosità possiamo dire che in Germania il girato, i temi e i soggetti sono abbastanza schematici. Mentre in Giappone perversione e violenza si intrecciano fino a confondersi.

Il tuo racconto fotografico è affiancato da un testo di Martin Amis. Ho trovato questo racconto più crudo e duro di quello mostrato dalle immagini, le quali nella loro franchezza mostrano l’umanità degli attori e lasciano aperte delle speranze anche quando ritraggono lo sfinimento fisico e psicologico, il disfacimento delle persone. Il racconto mi è parso più cupo, più disperato rispetto alle immagini.

Il testo secondo me è parte fondante del libro, io ho avuto la fortuna e anche l’onore di affiancare alle mie foto le parole di un grandissimo scrittore come Martin Amis, che ha concesso il testo solo dopo aver visto il lavoro. Io trovo invece una grande prossimità tra il testo e le immagini, perché in entrambi c’è molto rispetto per l’umanità delle persone che compongono questo mondo. Io il testo non l’ho trovato così cupo: le ultime parole offrono certamente una speranza.

Forse ho avuto questa impressione perché il racconto delle esperienze vissute in prima persone, con così tanti e tali dettagli, è davvero difficile da accettare, la fotografia rimane in un certo senso più aperta, nel racconto si rimane intrappolati in queste esperienze di dolore.

Il racconto delle esperienze è molto crudo è vero. Questo dipende anche dall’approccio di ciascuno, forse la fotografia mi ha suggerito un racconto più sfumato, ma la bellezza di alcuni gesti non nasconde che magari la scena prima che era stata tremenda. Forse avevo più frecce al mio arco e semplicemente ho potuto variare di più i registri. Perché in realtà lì dentro ho attraversato dei momenti molto duri. Tanto è vero che a un certo punto ero esausto e non ce la facevo più. Questa stessa sensazione si ritrova nel testo. C’è un passaggio in cui Martin Amis dice: “Rinchiuso nella mia stanza d’albergo mi devo un attimo fermare, perché non so se queste cose che ho visto mi rimarranno attaccate addosso”. In definitiva trovo che la sua visione e la mia costituiscano un insieme armonico.

Sono molte le immagini che mi hanno colpito: una donna a Dortmund, di cui si vede solo la testa spuntare in basso a destra, sembra rida anche se, probabilmente, quella è una smorfia di dolore, mentre a Budapest una ragazza seminuda aspetta di girare una nuova scena, un manager discute come in un salotto con 4 pornostar nude, due attori si baciano sulla guancia tra una scena e l’altra e poi la noia di ragazze sedute e in attesa. Poi c’è la ragazza giapponese bagnata fradicia, nuda ed esausta. Queste e altre immagini raccontano un mondo di grande violenza. Per le donne in particolare il dolore e la sofferenza sembrano essere un destino ineluttabile.

Al girato con storie e scene incredibili e indicibili fanno da contraltare pause, grigie, normali, meste, a volte disperate.

Il mondo del porno è tutto violento verso la donna, di base, non c’è un paese più rispettoso. Mi è successo di incontrare un’attrice all’inizio del viaggio nel 2000 e di rincontrarla alla fine nel 2002 e di vedere sul suo viso i segni di questi due anni passati molto velocemente. Perché è un lavoro che consuma molto; devo dire che anche gli uomini soffrono. Per le storie c’è davvero un’anarchia totale: spesso si parte con un’idea e si arriva a un’altra, con differenze tra un paese e l’altro, in alcuni si improvvisa mentre in altri si rimane fedeli al copione con storie più minimaliste. Questa è un’altra cosa che fa tenerezza, perché qualcuno ci prova a dire e a dirsi “stiamo facendo un film normale, anzi dell’arte, perchè siamo l’ultima frontiera dell’arte perché non c’è censura”. In realtà non c’è tutta questa libertà, perché in un film porno ci devono essere almeno 4 scene di sesso. E quindi anche questa è un’imposizione alla creatività. Poi dipende. Sul set di “Ass Alien”, il nome dice già molto, era tutto talmente assurdo che c’è stato un momento di ilarità generale, mentre in Giappone non c’era nulla da ridere e la violenza è stata presente durante tutto il soggiorno, come un filo latente, soprattutto sulle donne. Come esperienza umana è stata una scommessa riuscita, se non altro perché sono qui a raccontartelo, perché sono uscito dal buco nero col mio filo di Arianna. Devo moltissimo al rapporto, che purtroppo ora è finito ma che avevo allora, con mia moglie, che mi ha sostenuto per due anni e mezzo e che, onestamente, se non avessi avuto vicino non so come ne sarei uscito; lei ha capito il progetto e mi ha accompagnato per tutto il viaggio. Certo mi ha cambiato un’esperienza del genere, però sono contento che dietro di me c’è un libro.

Nel testo di Martin Amis una ragazza dice che per essere scritturati bisogna spostare il confine di quello che si è disposti a fare sempre un po’ più in là, fare cose sempre più violente e devastanti.

È una realtà molto lontana da quella che emerge dalle interviste ufficiali dove le pornostar parlano dando del proprio lavoro una versione molto edulcorata, perché è ovvio a un intervistatore si vuole dare di sé la migliore immagine possibile, anche se non veritiera. Anche in questo senso la fotografia non mente, tornando alla ragazza di cui ti parlavo prima, se io fotografo una ruga d’espressione che dopo due anni è diventata un solco si vede la differenza.

Il porno è estremo ma non rivoluzionario, in esso i caratteri anche arcaici della società, la potenza e sessuale e la violenza maschile e la sottomissione e disponibilità femminile sono estremizzati, mai sovvertiti. Gli stereotipi sono rispettati a tutte le latitudini.

Nel mondo che conosciamo meglio, quello occidentale, l’uomo e la donna hanno questi ruoli. Rappresentare anche la pornografia così rassicura, il fruitore del porno è prevalentemente un maschio, anche se anche qualche donna inizia a mostrare interesse, per questo vedere un uomo che domina e umilia una donna rassicura un fruitore. Non scordiamoci comunque che è un mercato, quindi c’è un prodotto che va venduto e risponde a una domanda.

Pur essendo un lavoro esteticamente bellissimo non è mai estetizzante e quello che si riscontra è sempre l’incontro con il soggetto fotografato. E i riferimenti fotografici e cinematografici che si colgono arricchiscono la visione: in una villa con piscina una modella si masturba nella parte in basso, mentre sopra si vede il fuori, un fuori che ricorda tante immagini di Robert Frank. È anche una delle scene in c’è il dentro e il fuori, la finzione e la realtà, come in molte altre ci sono i cameraman, le luci, ma qui di più, perché il cameraman e le luci fanno sempre parte di quel mondo, mentre l’auto parcheggiata che si scorge là dietro è davvero “fuori”.

Fisicamente l’unica veramente con dentro e fuori forse è quella. La donna si sta masturbando e dietro c’è la periferia americana di Cassavetes o di Tarantino. È un po’ il senso del mio lavoro. Cercare di metter in relazione il paradosso. Sul porno è più diretto perché il sesso è un elemento che colpisce, allo stesso tempo cerco di mantenere una presenza che ricordi che è una rappresentazione, che il tutto si svolge in un contesto. Questo è il senso del mio lavoro, non smascherare, sennò diventerei moralista, ma ridimensionare una rappresentazione esagerata che viene offerta. A me piace molto questa possibilità. Perché credo che sia il mio modo romano di relativizzare le cose.

Quali saranno i prossimi lavori?

Sto lavorando a un progetto sulla produzione cinematografica extra — hollywoodiana, per narrare una globalizzazione che avviene anche nel cinema. Poi ho concepito un nuovo progetto sulla televisione che vorrei finire. Dopo anni ho trovato il linguaggio che allora, quando l’ho iniziato, non possedevo.