Interviste sulla fotografia: 2. Roberta Valtorta

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Roberta Valtorta è direttore scientifico del Museo Fotografia Contemporanea di Cinisello Balsamo, storica, critico e docente di fotografia. Le domande si basano sullo studio di alcuni dei suoi libri, sulla visione di mostre ed esposizioni di cui è stata curatrice e su un personale rapporto studente-docente.

Per intervistare Roberta Valtorta ho scelto 5 parole e le ho chiesto di commentarle. Le 5 parole sono state ricavate dalla lettura e dallo studio del lavoro di analisi che Roberta Valtorta svolge da anni.

Le 5 parole sono:

- contemporaneo

- spettacolarità

- pubblico

- catalogazione

- fotoamatore

1.Contemporaneo.

Il concetto di contemporaneo in fotografia, l’importanza e le caratteristiche che distinguono un autore, o un lavoro effettivamente contemporaneo da uno che non lo è. Non potendolo o non volendolo essere si interpreta un ruolo solo regressivo? Il reportage storico è un linguaggio ancora contemporaneo? I principali diffusori di fotografia le riviste illustrate. Che utilizzo fanno della fotografia contemporanea? Quale visione propongono ai lettori?

Penso che la fotografia si sia misurata con il concetto di “contemporaneità” soprattutto sul tema della narrazione — o meglio della complessità, la possibilità, forse l’impossibilità del narrare. Il linguaggio dei grandi maestri del reportage storico sottintendeva la certezza di poter raccontare attraverso la fotografia, e la capacità del fotografo di scegliere che cosa e quando fotografare, di fronte alle vicende umane e alla storia. Il fotografo si sentiva un testimone di fronte alla storia e dentro di sé sapeva di poter cogliere i momenti più importanti, non solo da raccontare ma anche da tramandare. E’ stata una importantissima stagione della fotografia, carica di impegno civile e anche segnata dalla grande fiducia nelle potenzialità del mezzo espressivo.

La complessità della nostra contemporaneità ha messo in discussione l’idea stessa di narrazione, che a partire dagli anni Settanta viene vissuta in maniera più problematica e aperta. Si fa avanti l’idea del frammento, della provvisorietà della visione, della sua parzialità. Nella grande comunicazione massmediale, la fotografia è raggiunta e poi superata dalla televisione e poi da internet: il giornale illustrato non domina più la grande comunicazione. Nella fotografia contemporanea non vi sono più grandi certezze sulla narrazione, e accanto a questo problema teorico-poetico-esistenziale vi è un altro grande problema: nei giornali la fotografia non può più essere protagonista come lo fu ai tempi della stagione d’oro del reportage. E nemmeno il reporter è figura protagonista e necessaria: basti pensare che molti importanti accadimenti contemporanei sono stati documentati e sono passati nei mass media grazie a immagini di amatori, di gente qualunque provvista di macchina fotografica, videocamera, videocellulare, e ricordo solo alcuni esempi: l’attentato alle torri gemelle a New York, le bombe nella metropolitana di Londra, l’impiccagione di Saddam Hussein. Non solo tutti abbiamo una macchina fotografica o una videocamera, ma tutti siamo anche “pronti” a trasformarci in reporter o in videoperatori, poiché abbiamo coscienza di essere immersi nella grande comunicazione e di vivere in un mondo nel quale, in ogni momento, potremmo essere testimoni e potenziali documentatori di eventi.

Credo che oggi nei quotidiani e nei periodici illustrati si trovi una fotografia di livello medio-basso, quasi sempre non innovativa, molto spesso al servizio del linguaggio della moda: intendo assimilabile alla sostanziale spettacolarità e leggerezza delle immagini di moda, basate su un appeal immediato e immediatamente consumabili. Qua e là troviamo la presenza di qualche ricerca di tono più contemporaneo, magari legata alla recensione di una mostra, di un libro, o utilizzata per “illustrare” qualche tema di particolare attualità. Ma l’elemento della spettacolarità e dell’impatto immediato prevale quasi sempre: sembra diventato un destino della carta stampata, così come anche, naturalmente, quello dell’immagine in movimento.

2. Spettacolarità.

La cifra comune a tutti i linguaggi che ambiscono a rivolgersi al grande pubblico è la spettacolarità. Come definiresti la spettacolarità in fotografia? Quanta spettacolarità c’è in quella proposta dai grandi mezzi di divulgazione, circuito delle grandi esposizioni incluso? La spettacolarità fa parte del mondo occidentale e di solito sono le culture in decadenza a offrire forme espressive più superficiali ed estetizzanti.

Come dicevo, proprio la spettacolarità sembra un destino al quale oggi l’immagine non può sfuggire. Una sorta di cancro. Nel cinema, nella televisione, in gran parte dei siti internet, e in fotografia, l’impatto immediato determinato da temi forti, colori, tagli, resa dilatata dello spazio, interventi digitali ad effetto, pare d’obbligo. Anche nel circuito dell’arte, le mostre in sedi private e anche pubbliche, la spettacolarità è molto diffusa: significa più successo nel mercato, più adesione del pubblico, e più gradimento da parte dei collezionisti di possibilità economiche e di cultura medio-basse. E’ certamente segnale di decadenza culturale, forse anche di declino, come tu dici, fase terminale di una cultura. Non dimentichiamo poi che non solo è più facile fruire di una immagine spettacolare che di una che obblighi a una più lunga lettura, ma che è anche più facile creare un’immagine spettacolare che non un’immagine più complessa e di significato più sottile.

Non so valutare quale sarà nel prossimo futuro il rapporto fra occidente (molto a lungo dominante) e oriente del mondo (molto a lungo dominato) in termini culturali, compreso il grava versante delle religioni. Ma comunque vada, che l’occidente prosegua nel suo tradizionale ruolo guida, che si giunga invece a una impressionante e accelerata compenetrazione di culture, oppure che l’oriente arrivi a dominare un occidente antico che pare aver perso le forze, il destino della fotografia sarà lo stesso: perdere la sua specificità storica e mescolarsi ad altri tipi di immagini digitali su quella che oggi viene chiamata “piattaforma multimediale” o anche “intermediale”, sulla quale le arti e la comunicazione sono destinate a intrecciarsi fra loro. E, inoltre, perdere fisicità e matericità, diventando immagine immateriale. Niente di così strano del resto: il cinema lo è da sempre.

3. Pubblico

Inteso come bene pubblico, come socialità, che nelle tue riflessioni ha una connotazione positiva. Qual è oggi il ruolo e l’utilità della committenza pubblica: nella storia le campagne fotografiche promosse da governi e amministrazioni hanno permesso analisi del territorio, del paesaggio e del linguaggio fotografico profonde e decisive nella storia di questo mezzo. Alcune di queste sono diventate a buon diritto snodi decisivi nello sviluppo della storia della fotografia. Uno dei temi principali di queste campagne è stato il paesaggio, che in un tuo saggio chiami spaesaggio, irriconoscibile e devastato da uno sviluppo senza regole. Credi che la fotografia possa non solo documentare il cambiamento, ma addirittura proporre nuovi modelli di socialità e di sviluppo?

Ho sempre creduto nei valori del pubblico e della collettività. Ho creduto nella scuola pubblica, nella necessità di costruire un museo pubblico. Oggi riporto molte delusioni, ma continuo con il mio lavoro a rimanere fedele a questa idea che ha informato le mie scelte fin da quando ero giovane. Attraverso le grandi campagne di committenza pubblica la fotografia ha contribuito alla conoscenza di momenti importanti della storia e della cultura, e anche le committenze pubbliche contemporanee, a partire dagli anni Ottanta, hanno scoperto e detto molto sulla complessità del nostro mondo in trasformazione, e, nel contempo, della fotografia anch’essa in trasformazione. Le committenze pubbliche, inizialmente legate al concetto di “documentazione” o “lettura” del paesaggio, si sono moltiplicate proprio nel momento in cui la fotografia veniva sempre di più vissuta come “arte” e diventava una disciplina meglio inserita nell’arte contemporanea. Ne è derivata una trasformazione dell’idea stessa di committenza: dalla documentazione al progetto concordato fra autore e committente alla totale libertà dell’autore, per il quale la committenza è diventata semplicemente un ambito nel quale collocare la sua ricerca. Nel contempo anche il paesaggio diventava sempre più complesso e, per così dire, sempre meno “rappresentabile”: diventava “spaesaggio” (ma io uso questo termine citando per la verità Vittore Fossati) non nel senso di brutto paesaggio, ma nel senso di paesaggio incoerente, complicato, difficile da capire e da afferrare.

Oggi riflettiamo su che cosa possa essere la committenza, e su come rinnovarla nei metodi e nel significato, affinché essa non diventi routine professionale.

Altra cosa sono le scelte dell’ente pubblico per quanto riguarda le mostre e gli eventi. E nuovamente cadiamo nel problema della spettacolarità e della immediatezza dell’appeal, della facilità della comunicazione,della visibilità, anche politica.

4. Catalogazione.

Il problema della catalogazione e della scelta per l’archiviazione è decisivo e difficile in questi anni di passaggio al digitale in cui la fotografia perde matericità e contemporaneamente se ne scattano infinitamente di più.

Quello della catalogazione e dell’archiviazione è un grosso tema, non solo in termini museali, ma generali. La fotografia dunque, diventata bene culturale anche per la legge italiana ma solo nel 1999, viene conservata non più solo come documento di altro, ma anche come oggetto culturale in se stesso. E’ evidente che le fotografie sono enormemente tante e non tutte verranno conservate: quali fotografie porre in stato di conservazione è un problema di scelta culturale, non facile ma possibile da affrontare. L’attuale passaggio tecnologico ha reso possibile una ulteriore moltiplicazione della immagini (già tantissime anche nell’epoca dell’analogico, del resto) ma ha anche messo a disposizione nuovi e ben più veloci strumenti per la catalogazione. E’ un problema di civiltà. Perché bisogna considerare che contemporaneamente sta venendo meno l’idea della storia, della memoria, il senso dello sviluppo temporale della civiltà e noi tendiamo a vivere solo nel presente. Dunque anche l’idea di archivio e le idee che ad esso si legano - catalogazione, conservazione, restauro - diventa più debole. Arriveremo a usare tecnologie molto sofisticate e veloci per catalogare tutto, conservare tutto (si pensi a Bill Gates) e nel contempo non sapremo più perché lo facciamo, poiché l’idea della storia ci avrà abbandonati. Avremo miniere di immagini e di riproduzioni di immagini fatte per salvare altre immagini, terremo invita questo delirio che vuole che tutto possa essere catalogato e potenzialmente conservato, ma non sapremo perché.

5. Fotoamatore.

Una figura decisiva nella storia della fotografia, in particolare di quella italiana, è quella dei fotoamatori, dei circoli fotografici di provincia e dei decaloghi del buon fotografare che imperversano su manuali e riviste. Due libri in uscita in questi giorni (“Photo trouvee” di Michel Frizot e Cedric de Veigy, e “L’Italia del Novecento. Le fotografie e la storia” a cura di Giovanni De Luna, Gabriele D’Autilia e Luca Crescenti) sono dedicati alle fotografie dei dilettanti. Anzitutto sarebbe da chiarire la definizione stessa di fotoamatore. Potrebbero esserlo tutti coloro che non si guadagnano da vivere fotografando, anche se tra chi scatta foto con un telefonino solo durante le feste e chi, dotato di ricca attrezzatura, possiede una certa competenza tecnica c’è differenza. Entrambi sono definibili fotoamatori? Quale barriera rende impossibile la comunicazione tra fotografia colta o professionale e quella amatoriale.

Molti dei grandi fotografi e degli artisti sono stati amatori. Un grande storico dell’arte e conoscitore della fotografia italiana, Lamberto Vitali, scriveva che la più interessante fotografia italiana è stata prodotta non dai professionisti, ma dai fotografi “irregolari”, appunto gli amatori. Si riferiva soprattutto all’Ottocento e al primo Novecento.

Oggi viviamo in un clima di grande apertura che non pone confini fra gli ambiti di produzione dell’arte, di tutta l’arte e non solo della fotografia. Dunque niente di strano se il lavoro di un amatore entra nel circuito dell’arte. Possiamo avere un designer che fotografa per diletto, un regista che fotografa per diletto, un pittore che fotografa per diletto, un musicista che fotografa per diletto… etc, come è già ampiamente accaduto nella storia dell’arte, e del resto l’arte è stata spesso ed è sempre di più multidisciplinare. Il problema sussiste se per amatore intendiamo la figura classica dell’amatore: cioè colui il quale vuole agire nel mondo amatoriale e frequentare solo il mondo amatoriale, con poca apertura culturale verso il mondo esterno. Il problema è tutto qui: se l’amatore è persona aperta alla cultura e ai cambiamenti, oppure se è persona affezionata al suo mondo, e magari solo il mondo della fotografia fotoamatoriale in quanto tale. Se è questo, il fotoamatore è una figura regressiva.

Federico Della Bella