Interviste sulla fotografia: 3. Renata Ferri

Renata Ferri, photoeditor di Io Donna.

Le altre interviste

1. Come sei arrivata alla fotografia, attraverso quale percorso di studi e lavorativo?

Ho fatto una scuola biennale di fotografia durante gli studi universitari.

Finita la scuola ho iniziato a lavorare per il teatro e il cinema come fotografa, ritratti fondamentalmente. Non posso dire che questa esperienza mi abbia formato. Potrei definirla quasi irrilevante rispetto a quello che è stata poi la mia vera professione.

2. Dopo essere stata a lungo photo editor per Contrasto sei diventata photoeditor di Io Donna. Quali sono le principali differenze, se ce ne sono, nel rapporto con i fotografi e la fotografia che hai riscontrato? Giovanna Calvenzi mi ha detto che il lavoro di photo editor può essere svolto efficacemente in presenza di due requisiti fondamentali: un ruolo direttivo all’interno della redazione (ad esempio capo-redattore), un direttore che voglia farsi consigliare e attento al linguaggio fotografico. Sembrano banali, ma non credo siano condizioni presenti in tutte le redazioni. Il GRIN in questo senso raccoglie esperienze e realtà molto diverse.

Il lavoro era completamente diverso. A Contrasto avevo un ruolo molto più direttivo. Quello che in un giornale fa il direttore: decide gli argomenti, accoglie suggerimenti, gestisce il personale interno e sceglie i fotografi.

La parte progettuale là aveva un peso enorme. Molti lavori sono stati portati avanti per anni. Questo in una redazione è impensabile. Il lavoro a Io Donna come photo editor è legato alla fotografia senza tutte queste implicazioni gestionali e, purtroppo, senza i tempi della progettualità a lungo termine. Concordo con Giovanna sul ruolo di responsabilità e autorità che la qualifica ti riserva all’interno della redazione. Io ho voluto fortemente la qualifica di caporedattore, non volevo avere altre persone sopra di me che non fossero il direttore e il suo vice. Sapevo bene, avendo frequentato molte redazioni, quanto fosse pesante la gerarchia senza autorevolezza che impera nei luoghi di lavoro in generale. E’ vero il GRIN raccoglie esperienze differenti, del resto è nato proprio per rafforzare il ruolo e la consapevolezza dei photoeditor e mi pare che ci stia riuscendo.

3. Da photo editor senti la responsabilità di decidere cosa, e come, vedrà il pubblico?

Moltissimo. Cerco anche di decidere molto in merito agli argomenti. Ho la fortuna di fare un giornale legato alle notizie e alle inchieste. Produciamo molto e questo aggiunge senso di responsabilità e un rapporto più forte con i fatti e il giornalismo. In questo senso mi sono allontanata dall’esperienza d’agenzia e la mia visione della fotografia è decisamente cambiata. Diciamo che non perseguo l’immagine per l’immagine e sento una maggiore apertura verso linguaggi differenti.

4. Sul tuo giornale appaiono spesso servizi, reportage lavori di grandi autori, accanto a giovani fotografi, magari poco noti, scoperti e lanciati proprio sulle vostre pagine.

Questo temo che sia un vizio o un vezzo della mia natura di cercare nuovi talenti, di aiutare fotografi che cercano la loro strada, di mescolare anche un po’ le carte e dare aria al ricambio generazionale. Penso sia indispensabile rischiare o assecondare i rischi dei fotografi. Azzardare visioni nuove, sostenere impegno e passione. Sono in un giornale che può permetterselo e sfrutto al massimo questa possibilità.

5. Come scegli i fotografi e le fotografie? Quali sono le caratteristiche di un progetto o le qualità di un fotografo a convincerti a lavorare insieme? Vedendo poi numerosi portfoli di fotografi esordienti o emergenti, riscontri delle somiglianze e un’evoluzione progressiva del linguaggio?

Scelgo i fotografi in base alla qualità del lavoro che propongono. Spesso vedo progetti sperimentali che mi dicono più di un lavoro finito. Li scelgo in base alla sintonia che sento, alla curiosità che mi suscitano. Spesso per il gusto di sperimentare, offrire spazio, incoraggiare.

Il linguaggio sta cambiando. Per fortuna in modo profondo. E’ un bel momento per la fotografia. Rigenerante. Dopo l’overdose di Photoshop e di immagini artificiali e senza anima, c’è di nuovo il coraggio di provare, di mettersi in discussione. Si vede nei grandi ma anche nei piccoli talenti emergenti.

Dopo le grandi concentrazioni degli anni ’90 che hanno visto l’affermazione delle mega agenzie all inclusive, ora assistiamo ad una nuova onda anarchica, individuale, sperimentale e molto dialettica. L’esperienza dei collettivi, il proliferare di festival, i blog, tutti strumenti che aumentano consapevolezza e scambio.

6. Parlando con Giovanna Calvenzi, conoscendone il percorso professionale e biografico, è evidente il suo legame con la fotografia italiana di paesaggio che con Ghirri, Basilico, Jodice, Mario Cresci e tanti altri è stata fondamentale per la cultura fotografica di questo Paese. Costituendone probabilmente il punto più alto dal punto di vista intellettuale e consentendo una definitiva legittimazione nella cultura alta di questo Paese. Una mostra come Ereditare il Paesaggio, che ho visto qualche mese fa a Biella al Museo del Territorio, curata proprio da Giovanna Calvenzi, desciveva il grande lascito di questo momento, non so se si definibile come movimento, a cavallo tra i 70 e gli 80, oggi portato avanti da giovani autori, che a quella scuola e a quel periodo fanno riferimento. Senti anche tu un legame particolare con quella fotografia, o i tuoi riferimenti sono altri?

No, decisamente vengo da un altro mondo. Mi piace il paesaggio, seguo abbastanza i lavori degli autori che hai citato e il rapporto di lunga e profonda amicizia copn Giovanna mi ha consentito di scoprire più di quanto sapessi. Di certo la mia competenza e passione affonda le radici nel reportage, nel fotogiornalismo, nella ricerca di nuovi linguaggi che narrino il mondo.

E’stato a lungo così. Recentemente mi incuriosiscono nuove strade, più sperimentali, a volte, autobiografiche o percorsi di ritratto. Rimane il fatto che vengo da una formazione molto giornalistica e l’aver diretto per tanto tempo i fotografi, seguendo notizie e storie, mi ha strutturato per quello che sono oggi. Forse sarebbe stato comunque così. La visione politica della vita, la curiosità verso il mondo che ci circonda, la passione per la testimonianza e per la storia mi hanno costretto a privilegiare il documento rispetto all’interpretazione pura e soggettiva. Oggi sono curiosa e aperta ma riconosco una maggiore capacità di lettura di alcuni linguaggi rispetto ad altri.

7. La comunicazione attraverso parole e immagini si può avvalere di moltissime modalità e registri, anche se spesso l’utilizzo illustrativo, di tipo didascalico o simbolico/allegorico, è prevalente su molte pubblicazioni. Ci sono ovviamente eccezioni, che emergono per intelligenza e originalità. E ancor più ci sono tanti autori che dell’ambiguità delle immagini hanno fatto il centro della loro indagine. Mi viene in mente l’opera di Francesco Jodice ad esempio.

Purtroppo i registri di cui parli sono dettati dall’ignoranza. Non c’è cultura. In questo paese c’è un vuoto culturale legato all’immagine. C’è sempre stata cultura di parola, rispetto e amore per lo scritto, ma l’immagine e la capacità di comunicare attraverso di essa sono ancora appannaggio di un’elite specializzata. Credo provenga da questa mancanza educazione, dalla paura di non saper “leggere” decifrare il mondo attraverso l’immagine. Credo ci sia un’attitudine a viverla come mezzo in cui si è passivi rispetto all’azione di leggere la parola.

Non si sa come rapportarsi, che fare, di conseguenza si ritiene un riempitivo, un elemento che spezza il testo e alleggerisce la pagina. Spesso, e questo è sintomo della mancanza di cultura di cui parlavo, l’immagine è illustrazione didascalica del testo o evocativa dell’argomento. Sempre di illustrazione si tratta però.

8. I grandi reportage sono entrati nella cultura alta, nel mondo dell’arte e non è raro vedere musei e gallerie esporre opere di grandi fotogiornalisti e reportagisti. Anche la fotografia destinata al mondo dell’arte, o quantomeno dei suoi echi, riesce a trovare spazio sulle pagine dei giornali. Credi che stia avvenendo questa contaminazione e pensi che possa essere virtuosa per entrambi?

Ne sono convinta. Sono anche molto felice di essere in quest’epoca di contaminazione. Sono curiosa di vedere i nuovi equilibri, di assistere alle evoluzioni e di trovare nuovi elementi. Le contaminazioni sono positive, nascono nuovi linguaggi, emergono autori che non avevano trovato una collocazione, disorientano i mercanti, spiazzano i critici, eliminano gli inutili. Tutte cose sane.

9. Quali sono, se li hai, i tuoi modelli editoriali e fotografici quando pensi a Io Donna? Ti ritrovi, e li ritrovi, nel prodotto finale che vediamo tutti noi in edicola ogni settimana?

Non mi ritrovo mai completamente in modelli “altri”. Un giornale è il frutto di un lavoro di gruppo che non puoi controllare ma che, proprio per questo, ha una sua specifica soggettività. Spesso sono contenta del risultato in base ai mezzi e alle sollecitazioni che avevo avuto ma in generale sono una persona sempre molto critica verso se stessa. Certo, ho dei modelli che guardano fuori dal nostro Paese: New York Times Magazine, Monocle, Geo (Germania) Le Monde 2, non sono molti. Ovviamente mi riferisco a giornali per il pubblico e non a riviste di settore o d’immagine. Non ci sono modelli, un giornale è figlio della sua storia e espressione del Paese in cui vive.

E’ un momento di grande crisi per l’editoria mondiale: schiacciata dalla necessità di viaggiare sulla rete e senza nuove energie per rinnovarsi nel mercato tradizionale.

Credo che in un tempo non troppo lungo verranno spazzati via molti giornali per lasciare posto a meno prodotti più sensati. Lo spartiacque tra editoria popolare e di approfondimento si farà sempre più marcato con la conseguente perdita da parte del secondo di vendite ma con l’acquisizione di una maggiore consapevolezza verso ciò che si può fare e su come si deve cambiare.

L’editoria on line prenderà una buona fetta di mercato e ci inventeremo nuovi mezzi per raccontare il mondo e come lo abbiamo visto.

10. In Italia i supplementi dei quotidiani hanno svolto, da Sette e Specchio fino ad oggi con Io Donna, D-La Repubblica, Ventiquattro, per citarne solo alcuni, un ruolo fondamentale per la diffusione di fotografia di qualità. Pensi che sia stato più facile rischiare essendo legati a solidi e autorevoli quotidiani? La nascita di alcuni di questi ha ragioni non solo editoriali, ma anche commerciali, credi che questo “vizio” d’origine, costituisca uno snaturamento o pensi non sia un problema? Infine i dati delle vendite dimostrerebbero il ruolo di traino svolto proprio da questi supplementi, certificando l’esistenza di un pubblico comunque ricettivo, che potrebbe essere intercettato anche da pubblicazioni autonome.

E’ una domanda che meriterebbe una risposta molto complessa. Per essere sintetica posso dire che questi sono nati con la missione specifica di lavorare sull’immagine. Era il loro compito. Approfondire i temi del quotidiano e, per i femminili, amalgamarsi alla moda che riempiva la metà del giornale. Era necessario porsi in modo nuovo rispetto alla fotografia e alla grafica.

Credo che in questi 12 anni di esistenza dei femminili e qualche anno in più per gli altri, abbiamo centrato l’obiettivo: cambiato il mercato, riscritto le regole commerciali e aperto la strada a tutte le pubblicazioni venute dopo, costringendo un po’ tutti a rinnovarsi, dare peso alla fotografia, dare pagine alle storie, rinnovare la grafica ecc.

E’ di certo un bilancio positivo, straordinariamente positivo.

11. Nel film “War photographer” James Nachtwey esprime chiaramente il suo timore che i giornali non siano più molto interessati a certi temi, a certe immagini, ritenute troppo forti e depressive dal punto di vista degli inserzionisti pubblicitari, fondamentali per i bilanci dei giornali. Riscontri anche tu un calo di interesse per queste tematiche e un’impennata del cosiddetto infoteinment e del collegato mondo delle celebrities?

War photographer è di qualche anno fa. Mi sembra che le cose stiano cambiando velocemente. Certo, c’è una grande difficoltà ad affrontare il giornalismo d’inchiesta, a guardare i mali del mondo, scriverne, elaborare, mostrare. Mi sembra una debolezza del giornalismo prima di tutto, della mancanza di inviati, della rapidità dell’informazione video e della rete , della paura ad investire e rischiare .

Insomma ci sono molti fattori che concorrono e l’editoria d’intrattenimento rispondendo ad esigenze diverse soffre meno questa crisi generazionale. Mi pare però che, l’ho già detto, ci sia lo spazio e soprattutto, si sia di fronte ad un mutamento ancora invisibile ma già irreversibile. Vedremo cosa succederà ma credo che anche se pochi, nuovi progetti daranno vita al rinnovato fotogiornalismo.

No, non parlerei di impennata dell’intrattenimento, piuttosto mi sembra un settore più stabile, meno in crisi. Quello che mi sconcerta è la mancanza di buoni e nuovi progetti, non guardare quello che c’è sempre stato e mantiene la sua quota di mercato. Il gossip è sempre andato bene. Che sia glamour o popolare.

Io ho la fortuna di essere in uno dei pochi giornali dove si fa l’inchiesta e dove si sente, nonostante i tempi della lavorazione da allegato, il ritmo del giornale.

E’ il privilegio di poter produrre, di pensare insieme ai giornalisti come fare le storie, di cercare notizie e argomenti. Non sento questa pressione. So che per fare un giornale come Io donna, con vendite di 700.000 copie e più di un milione di lettori devo fare cose commestibili, fotografie che invitano a leggere, che suggeriscono curiosità, che avvicinano tutti, indiscriminatamente. So che per fare un prodotto rivolto al grande pubblico devo parlare una lingua semplice e chiara e non disdegnare argomenti di costume e di intrattenimento e non credo che questo sia poco etico e meno interessante di altri argomenti o di temi “forti”.

Come ho imparato da Giovanna Calvenzi molto tempo fa: un buon photo editor è quello che realizza, al meglio delle sue possibilità, il giornale che gli viene chiesto di fare dal suo editore e dal direttore.


Federico Della Bella